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Sullo scaffale

Libri

Consigli di lettura, spunti di riflessione, recensioni di libri raccolti nel Centro di documentazione della Fondazione Sasso Corbaro.

Recensioni 

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    Abbassa il cielo e scendi

    Giorgio Boatti
    Mondadori, Milano, 2022

    Giorgio Boatti è nato in un paese della Lomellina, al confine tra Lombardia e Piemonte, dove tutt’ora risiede e, prima di esordire con il romanzo autobiografico Abbassa il ...

    Giorgio Boatti è nato in un paese della Lomellina, al confine tra Lombardia e Piemonte, dove tutt’ora risiede e, prima di esordire con il romanzo autobiografico Abbassa il cielo e scendi, ha pubblicato parecchi saggi di carattere storico contemporaneo che vi invito a scoprire qui.

    Di Abbassa il cielo e scendi, la scrittrice e scout letteraria Cristina De Stefano, ha detto: «Per parlare della follia ci vuole un poeta. Per raccontare il tempo perduto ci vuole uno storico. Giorgio Boatti è tutte e due le cose e lo dimostra in questo straordinario romanzo dove tutto è vero». Mai strillo poteva essere più azzeccato e preciso nel descrivere la doppia natura di questo libro. Da una parte, infatti, Boatti racconta in prima persona il suo rapporto con il fratellone Bruno che, dall’età del servizio militare, inizia a manifestare i sintomi di una grave malattia mentale, la schizofrenia. Dall’altra, attingendo al suo bagaglio di giornalista e saggista, grande conoscitore del panorama socio-politico italiano del «Secolo Breve», lo scrittore inserisce questa sua vicenda personale in un contesto più ampio, che gli permette di parlare delle famiglie che faticavano ad arrivare a fine mese per far studiare i figli, che quando capitava una malattia la tenevano nascosta per pudore e vergogna e di tutti coloro che sono stati testimoni delle grandi rivoluzioni (la legge Basaglia, per citarne soltanto una, che nel 1978 sanciva la chiusura dei manicomi) e, purtroppo, pure del loro tradimento.

    Se i grandi romanzi – ed è qui che l’arte esercita la sua funzione politica – ci fanno riflettere, in questo Abbassa il cielo e scendi, che grande romanzo lo è dalla prima riga ai ringraziamenti (a proposito, andateveli a leggere!), ci sono parole sul «prendersi cura» la cui intensità, alimentata dall’esperienza personale dell’autore, si trasmette in maniera così potente al lettore che, più di tanti testi scientifici, sono in grado di farci capire cosa sono le Medical Humanities.

    Perché leggerlo? Perché, una volta letto il libro, avrete anche la possibilità di ascoltare l’autore. Giorgio Boatti è stato invitato il 6 aprile 2023 dalla Casa della Letteratura per la Svizzera Italiana a presentare a Lugano Abassa il cielo e scendi. Colgo l’occasione per ringraziare il presidente della Casa della Letteratura, il poeta Fabiano Alborghetti, per avermi dato l’opportunità di moderare quell’incontro e vi suggerisco caldamente di consultare il programma dei loro prossimi, interessantissimi, eventi.

    Una citazione dal libro: «Ed è un peccato. Perché magari tra mezzo secolo oppure oltre ancora, quando sotto quel tetto non abiteranno più dolore sofferenza, questa vetrata infranta e insanguinata aiuterebbe a capire qualcosa della pazzia e del suo infrangersi sulla fragilità umana; a comprendere, in un baleno, quanto siano vicini alle vite di ognuno di noi i suoi margini, e taglienti, nei confronti delle nostre arroganti certezze, i suoi bordi».

    Nicolò S. Centemero
    Newsletter 39 - Aprile 2023

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    Lapvona

    Ottessa Moshfegh
    Feltrinelli, Milano, 2023

    Attualmente, tolto alcune rare eccezioni, tra cui Carmen Maria Machado...

    Attualmente, tolto alcune rare eccezioni, tra cui Carmen Maria Machado e Joshua Cohen, già recensiti in Sullo Scaffale. la letteratura «made in USA» non sta brillando per fantasia e sperimentazione. Tuttavia, c’è un’altra autrice, Ottessa Moshfegh (padre iraniano e madre croata, ma americanissima, natia di Boston) che negli ultimi anni è stata in grado, sin dal suo esordio Eileen (di cui a breve uscirà pure l’adattamento cinematografico) di giocare una partita sé.
    Ma arriviamo al suo ultimo romanzo, dallo strano titolo Lapvona. Ebbene sì, anche questa volta Moshfegh ce l’ha fatta a far dire ai suoi lettori «ma cosa diavolo?!». Questo libro, infatti, appena uscito per Feltrinelli (traduzione di Silvia Roti Sperti), è l’ennesima dimostrazione che, se si ha voglia di rischiare e il talento per farlo, si può, ancora oggi, proporre qualcosa di diverso dal resto dei romanzi (troppi e tutti simili!) che si trovano sugli scaffali «novità» delle librerie.
    Ma di cosa stiamo parlando? Allora, Lapvona è, formalmente, un romanzo storico ambientato nel medioevo. Però, come ci ha già abituato nelle precedenti opere, la scrittrice americana anche qui destruttura il genere, liberandolo da riferimenti di luogo (Lapvona, che è il nome del paese immaginario dove è ambienta la vicenda, non viene mai detto in quale parte del mondo si trova) e tempo (non ci sono anni, date… ma solo cinque stagioni, da primavera a primavera) ma lasciando alcune convenzioni tipiche tra cui i simbolismi biblici, i signorotti ricchi che sfruttano e maltrattano i sudditi, le streghe e un certo gusto per il grottesco che in alcuni casi arriva persino a tingersi di tinte orrorifiche.
    Alcuni lettori potrebbero trovare in Lapvona una certa critica alla società contemporanea e persino alcuni spunti per innescare un dibattito sia etico che religioso, altri (e io forse sto con questi ultimi, considerando che, anche ascoltando alcune belle interviste che si trovano on line, l’autrice non dichiara mai in maniera esplicita queste intenzioni) si godranno semplicemente una bella fiaba sui generis, con scene che paiono uscite direttamente dai quadri di Hieronimus Bosch o da certi film di Dario Argento e alcuni plot twist che danno parecchio gusto alla trama… entrambi, però, a libro terminato, rimarranno un po’ stupiti, un po’ disorientati, ma sicuramente consapevoli e felici di essersi letti qualcosa di particolare e dall’alto contenuto artistico. In fondo, non dimentichiamolo, la letteratura dovrebbe essere, prima di tutto, questa roba qui.

    Perché leggerlo?
    Per scoprire una delle scrittrici più interessanti dell’attuale panorama letterario internazionale. Ah, vi consiglio caldamente di non farvi scappare anche il suo più celebre Il mio anno di riposo e oblio, (sempre edito da Feltrinelli e ora anche in edizione economica)

    Una citazione dal libro:
    «Quando chiedeva consiglio agli uccelli, quelli rispondevano che non sapevano nulla dell’amore, che l’amore era un difetto propriamente umano che Dio aveva creato per controbilanciare il potere della avidità degli uomini».

    Federica Merlo
    Newsletter 39 - Aprile 2023

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    Shock

    Carlo Patriarca
    Neri Pozza, Vicenza, 2022

    Carlo Patriarca, medico anatomopatologo e scrittore, decide, in questo suo terzo romanzo, Shock, di parlare di Ugo Cerletti, neurologo italiano nato negli anni settata del XIX secolo ...

    Carlo Patriarca, medico anatomopatologo e scrittore, decide, in questo suo terzo romanzo, Shock, di parlare di Ugo Cerletti, neurologo italiano nato negli anni settata del XIX secolo e inventore della terapia elettroconvulsivante – più nota con il termine di elettroshock.
    Bella e interessante è, in particolare, la prospettiva con cui sceglie di trattare la figura – difficile e sin qui colpevolmente dimenticata – di Cerletti e il percorso di vita che ha condotto questo medico, nel «secolo breve» (Cerletti ha vissuto entrambe le guerre mondiali) alle sperimentazioni dell’elettroshock sugli animali per poi arrivare ai primi trattamenti sui pazienti. Lo stesso Patriarca, che ho avuto l’onore di ospitare a «Gli scrittori e la malattia» (qui recuperate la serata) in quell’occasione ha detto: «ho deciso di raccontare questa storia, attraverso gli occhi un po’ devoti di un suo assistente come “antidoto” alla terapia elettroconvulsivante; vedere questa figura attraverso gli occhi di chi non ha per pregiudizio un atteggiamento critico – un allievo nei confronti del maestro». Bello è anche il fatto che il legame tra i due – senza svelare troppo – vada al di là delle corsie e dei luoghi più disparati e assurdi in cui si facevano ai tempi le prime pionieristiche ricerche, tramite la figura della madre dell’allievo e del fratello di questo, Giovanni.
    Patriarca, mischiando la realtà (la documentatissima vita di Cerletti) alla fantasia (l’allievo e la sua famiglia sono invenzione dello scrittore) ha creato un piccolo gioello – piccolo solo perché si legge tutto d’un fiato, in un pomeriggio, volendo – che ci riporta indietro negli anni del boom delle scoperte nella medicina, ci fa conoscere figure storiche che hanno creato alcune delle basi sulle quali si fonda la moderna neurologia e soprattutto, lascia al lettore il compito di farsi una propria opinione anche quando gli argomenti diventano più controversi.

    Perché leggerlo? Perché, oltre a essere un bellissimo romanzo storico, questo libro ci invita – grazie agli elementi forniti dall’accurata ricerca di Patriarca – a contestualizzare e a capire, senza facili entusiasmi, il come e il perché certe scoperte siano avvenute proprio in quegli anni.

    Una citazione dal libro: «Ma era una terapia? Il paziente torna cosciente, si risveglia a scaglioni, allenta le mascelle, può parlare. Dopo pochi minuti si addormenta, dorme per qualche ora e poi si risveglia ristorato. Era una terapia? La metafora bellica andava alla grande, ma in medicina è sempre stato così. Che si tratti di oncologia, di pandemie o di psichiatria, i medici accerchiano, colpiscono su più lati, combattono finché la malattia non ha la faccia nella polvere».

    Nicolò S. Centemero
    Newsletter 38 - Marzo 2023

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    Il paradosso della sopravvivenza

    Giorgio Falco
    Einaudi, Torino, 2023

    Ogni volta che Giorgio Falco, scrittore italiano tra i più talentuosi sulla piazza, pubblica un romanzo, è per me una festa. L’ultima uscita datava fine 2020, il titolo era ...

    Ogni volta che Giorgio Falco, scrittore italiano tra i più talentuosi sulla piazza, pubblica un romanzo, è per me una festa. L’ultima uscita datava fine 2020, il titolo era Flashover e parlava dei responsabili dell’incendio al teatro La Fenice di Venezia. Una bomba, bellissimo!
    A conferma della grande capacità di Falco d’indagare l’umano anche nelle sue forme più abiette e perverse arriva quest’anno, sempre nella prestigiosa collana Super Coralli di Einaudi, Il paradosso della sopravvivenza. Il libro ha per protagonista Federico, detto Fede, o meglio il «ciccione», ragazzo di Pratonovo, paese immaginario del Trentino, laureato in storia e con chiare difficoltà di relazione con il cibo, con l’altro sesso e sul lavoro. Se proprio quest’ultimo è sempre stato uno dei temi portanti della narrativa di Falco, in questo caso, seppur presente (le pagine che descrivono il periodo trascorso da Fede a taggare video pornografici per una società informatica descrivono bene quello che qualche anno dopo, ai giorni nostri, sarebbe diventato il fenomeno della pornografia on-line), in questo caso è anche e soprattutto il tema del corpo che domina sugli altri. Giulia, bella e ricca ragazza di Pratonovo, che usa la sua avvenenza per maltrattare Fede facendogli mangiare in maniera compulsiva quello che lei, ai limiti dell’anoressia, non può e non vuol mangiare. Barbara, detta «Barbie cassonetto», ragazza obesa che Fede incontra a Milano, dove si era trasferito per sfuggire a Giulia e al paese, con la quale intraprende una relazione che fallisce in breve tempo per un lapsus legato al nomignolo affibbiatole dai loro colleghi. Granit, uno di questi che a causa di un tuffo resta invalido e diventa il termine di paragone per la disabilità (l’obesità lo è?) di Fede… «La condizione di ciccione è invalidante quasi come un incidente, ma Fede non ha avuto alcun trauma improvviso, soltanto l’accumulo dei giorni, la vita. Non basta questo? si chiede mentre apre il frigorifero l’anta cigola sopportando il peso del tempo di fabbricazione, di altri inquilini finiti chissà dove».
    Il poeta Gianni Montieri scrive a proposito del Il paradosso della sopravvivenza in un bell’articolo comparso su Doppiozero che questo è «un romanzo che nasce dalla capacità di Giorgio Falco (evidente in ogni libro che ha scritto) di osservare la realtà e le cose per quello che sono, per come appaiono, per come avrebbero potuto essere. Di andare a fondo alle cose» e ha ragione da vendere. Falco, con la sua incredibile scrittura, sempre riconoscibile nei toni e nelle atmosfere che le sue parole sanno evocare – qui c’è tanta malinconia e solitudine – anche questa volta riesce a dirci, meglio di quanto riusciamo a fare noi stessi, quello che abbiamo intorno, quello che ci accade, quello che non ci piace, quello che non vorremo.

    Perché leggerlo? Perché la letteratura, così come il cinema (faccio notare che questo è anche l’anno in cui Brendan Fraser ha vinto un oscar meritatissimo per aver interpretato Charlie il superobeso protagonista in The Whale del regista Darren Aronfsky) e le arti in generale (Medical Humanities!), sono capaci di esplorare i temi che trattano con una profondità così umana che la scienza non potrà mai raggiungere. E questo romanzo ne è il chiaro esempio.

    Una citazione dal libro: «È la fine di un altro inverno. Ieri c’è stata una specie di nevicata, la temperatura era al di sopra della media stagionale: troppo alta per nevicare davvero. È caduta una neve zuppa, fiocchi inconsistenti disorientavano lo sguardo trasformandolo in un’occhiata acquosa, malinconica, votata al pianto. I fiocchi attecchivano sul terreno, e subito si scioglievano con uno scricchiolio come quando, con le dita, si schiacciano i pidocchi».

    Federica Merlo
    Newsletter 38 - Marzo 2023

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    Nuoto libero

    Julie Otsuka
    Bollati Boringhieri, Milano, 2022

    Da sempre la Fondazione Sasso Corbaro si occupa del tema delle demenze. Nel settembre dello scorso anno, ad esempio, si è parlato di ...

    Da sempre la Fondazione Sasso Corbaro si occupa del tema delle demenze. Nel settembre dello scorso anno, ad esempio, si è parlato di uno scrittore italiano, Daniele Del Giudice – un grande di fine Novecento – che purtroppo ne ha sofferto (qui potete recuperare la serata). Un’altra occasione invece, ci sarà a breve, il 22 febbraio alle 20.30 on-line, all’interno del ciclo «Gli scrittori e la malattia» insieme a Beppe Sebaste e al suo romanzo autobiografico Una vita dolce (già recensito in «Sullo scaffale»).

    Proprio la demenza di Alice, madre della narratrice, è la protagonista di Nuoto libero, breve e fulminante romanzo di Julie Otsuka, scrittrice americana di chiare origini nipponiche. Il libro, scritto quasi interamente in prima persona plurale (scelta non comune e già per questo degna di nota) narra un rapporto madre-figlia di intimità e rimpianto. Otsuka, che utilizza uno stile minimale e ricorre spesso a elenchi di dettagli capaci di trasmettere la semplicità del quotidiano, decide di strutturare il romanzo in due parti. La prima, dedicata a una piscina e ai suoi nuotatori habitué, tra cui anche Alice, contraddistinti dalle loro peculiari caratteristiche e idiosincrasie che fan sorridere il lettore. La seconda, nella quale protagonista diventa la malattia degenerativa che intacca ricordi e funzioni e rende Alice «persona con cui è difficilissimo vivere» costringendola a trasferirsi al Bellavista «residenza a lungo termine for profit per disturbi della memoria». Senza svelare troppi dettagli di trama che rovinerebbero il gusto della lettura di un romanzo che si termina in poche ore, ho trovato molto interessante il ricorso che Otsuka fa alla «crepa», concreta all’inizio quando compare sul fondale della piscina e poi – a legare prima e seconda parte – metafora di quanto accade in un cervello che si ammala.

    Perché leggerlo? Perché Nuoto libero è un ottimo esempio di quella letteratura che parla di malattia, capace di far riflettere sulle domande, umanissime, che ci facciamo noi esseri umani: cosa diventiamo senza i nostri ricordi? Cosa facciamo quando non siamo più in grado «di fare»? Come scendiamo a patti col fatto che i nostri cari si ammalano e non sappiamo curarli?

    Una citazione dal libro: «Non ricorda come si è fatta quei lividi sulle braccia, né di essere uscita a passeggio con te questa mattina. Non ricorda di essersi chinata, durante la passeggiata, per cogliere un fiore dal giardino di un vicino e infilarselo tra i capelli. Magari tuo padre mi bacerà, adesso. Non ricorda cos’ha mangiato ieri sera a cena, né quando ha preso la medicina. Non si ricorda di pettinarsi».

    Federica Merlo
    Newsletter 37 - Febbraio 2023

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    In Svizzera – Sulle tracce di Helvetia

    Lorenzo Sganzini
    Gabriele Capelli Editore, Mendrisio, 2022

    Sono un immigrato. Dal 2010 vivo a Lugano. Sono nato in un altro posto, in un altro stato e qui dove sto adesso, non son certo l’unico. Ma ...

    Sono un immigrato. Dal 2010 vivo a Lugano. Sono nato in un altro posto, in un altro stato e qui dove sto adesso, non son certo l’unico. Ma son certo di non essere nemmeno l’unico che, per varie e svariate ragioni – tra le quali la supponenza, caratteristica di molti di noi, che se sto in un posto, beh, quel posto lo conosco solo per il fatto di starci – non conosco il posto dove sto. E allora, anche per questo, ho letto in un paio di giorni un romanzo fuori dalla mia abituale comfort zone – come dicono quelli giovani e trendy. Il libro in questione è In Svizzera – Sulle tracce di Helvetia pubblicato di recente dal localissimo editore Gabriele Capelli. L’autore e protagonista è Lorenzo Sganzini, classe ‘59 e tante cose fatte per la cultura in Ticino, il quale «ha avvertito il desiderio di uno sguardo più suo e la necessità di andare a cercarlo in un viaggio attraverso il Paese» (semi-cit. dal testo) dopo aver letto sui giornali, un primo d’agosto, i resoconti dei discorsi per la festa nazionale. E mi dico, sorridendo… magari facessero a tutti questo effetto!

    Any way, sì, si è già capito, lo so, ma repetita iuvant (a proposito, se si viaggia si incontra la storia e la storia della Svizzera ci dice che prima che Nostra Signora parlasse tre lingue e un po’, parlava, o forse meglio dire, scriveva anche in latino… vero «Helvetia»?), che questo è, come dice anche la copertina un – aggiungo io bel – «romanzo di viaggio». Un viaggio che Sganzini comincia in Engadina, lassù, sul Piz Lunghin (eh sì, pure i dialetti, pure-i-dialetti si parlano in questa Svizzera!) e finisce dopo varie peregrinazioni e pellegrinaggi – non solo spaziali ma anche temporali – nel palazzone col tetto verde, quello al centro della città dell’orso, dove si decide quotidianamente come Sig. ra Helvetia si deve comportare.

    Perché leggerlo? Perché chi non sa, saprà, chi sapeva e ha dimenticato ricorderà e insieme a quelli che sanno già tutto si godranno una lettura interessante, che affronta la materia in maniera briosa e mai noiosa e senza rinunciare ai documentatissimi – prova ne è la ricca bibliografia – dettagli storico-geografici.

    Una citazione dal libro: «Quando decido di tornare lassù, allo spartiacque, l’idea stava incominciando a prendere corpo pian piano. Assieme a me c’è Chantal, mia moglie, che mi accompagnerà in tutto il viaggio. La bella giornata d’agosto sembra perfetta, ma come può capitare in montagna d’improvviso ci sorprende il maltempo. La temperatura scende fino quasi a sfiorare lo zero e la nebbia si fa così fitta da rendere persino difficile seguire il sentiero. Gocce taglienti di pioggia portata dal vento ci colpiscono i volti arrossati dal freddo. Senza accorgerci arriviamo al laghetto, la sorgente dell’Inn».

    Nicolò S. Centemero
    Newsletter 37 - Febbraio 2023

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  • 36-2
    Il Cristo iracheno

    Hassan Blasim
    Utopia, Milano, 2022

    Poeta, editor, regista e scrittore iracheno, Hassan Blasim, classe ’73, dopo gli studi in patria all’Accademia di arte cinematografica, a causa ...

    Poeta, editor, regista e scrittore iracheno, Hassan Blasim, classe ’73, dopo gli studi in patria all’Accademia di arte cinematografica, a causa della critica politica e sociale presente all’interno delle sue opere, è stato costretto alla fuga e ora vive da rifugiato in Finlandia.

    Di Blasim, che l’inglese The Guardian non ha esitato a definire «il più grande scrittore vivente di lingua araba», è da pochissimo uscita in italiano la raccolta di racconti Il Cristo Iracheno.

    Si tratta di 12 racconti di circa una decina di pagine ciascuno, nei quali dal reale si passa spesso al fantastico nel giro di una frase oppure, in altri casi, i due elementi si fondono in maniera indissolubile, generando un effetto straniante e dirompente nel lettore, ulteriormente amplificato da una prosa cruda, durissima e a tratti macabra.

    È difficile che in una raccolta di racconti il livello si mantenga sempre elevato, ma in questo caso ci troviamo davvero davanti a una «eccezione che conferma la regola». Grazie anche alle tematiche, che mantengono le storie tra loro unite da un fil rouge fatto di guerra, fanatismo, terrorismo, emigrazione e soprattutto profondi traumi umani, lo scrittore arabo, che purtroppo conosce fin troppo bene la materia di cui racconta, è stato capace – servendosi anche di un bagaglio culturale fatto di una certa letteratura americana e sudamericana – di creare racconti memorabili e strazianti, i cui protagonisti, come solo quelli della grande letteratura sanno fare, ti lacerano e ti «rimango dentro».

    Perché leggerlo? Perché, usando le parole di Gerardo Masuccio, editor della casa editrice Utopia (che sarà ospite de «Gli scrittori e la Malattia» l’8 febbraio qui il link) «se la vita, nei suoi orizzonti certi, è attraversata da un dolore inesprimibile, è lecito trovare nell’illusione la forza per sfidare l’oggi e osare un nuovo domani».

    Una citazione dal libro: «Ho trascorso gli anni della mia infanzia e dell’adolescenza a spiare tutti come un cecchino nascosto nel buio. Miravo e facevo fuoco. Sparavo sugli incubi della mia vita con altri incubi, i miei incubi immaginari. Mi figuravo scene in cui mia madre e gli altri venivano torturati, e nel mio libro di scuola disegnavo enormi camion che schiacciavano le teste dei bambini».

    Federica Merlo
    Newsletter 36 - Gennaio 2022

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  • 36-1
    Perché scrivo

    Joan Didon
    Il Saggiatore, Milano, 2022

    A un anno dalla scomparsa di Joan Didion, Il Saggiatore pubblica Perché Scrivo, ultima raccolta di saggi (uscita negli States ...

    A un anno dalla scomparsa di Joan Didion, Il Saggiatore pubblica Perché Scrivo, ultima raccolta di saggi (uscita negli States nel 2021) della scrittrice californiana, celebre per il memoir L’anno del pensiero magico.
    Parlando di Didion, il pubblico dei suoi lettori si divide in due gruppi: quelli che ne amano l’intera produzione e quelli che la considerano una tra le più grandi scrittrici di non fiction del Novecento – ignorando volutamente i suoi romanzi e ritenendoli qualitativamente e per importanza opere minori. Io sto assolutamente coi primi e con un po’ di presunzione mi permetto di suggerirvi di leggere, oltre alle opere più celebri come L’anno del pensiero magico, Blue Nights e The White album – indubbiamente dei capolavori assoluti – anche i romanzi Run River, Prendila così, Miami e Diglielo da parte mia.
    Detto ciò, arriviamo a Perché scrivo… e ci arriviamo dicendo che il saggio Perché scrivo, che dà il titolo all’intera raccolta, è quello che dichiara in maniera esplicita uno dei nuclei tematici più importanti, presente anche in altri testi come Raccontare Storie e Ultime parole. Didion, infatti, qui più che in altre precedenti pubblicazioni di non fiction, parla spesso della sua arte, della «scrittura come soggetto, la scrittura come modo di vita» (Hilton Als, nella prefazione).
    Non mancano però anche saggi dedicati agli Stati Uniti dello scorso secolo, tra cui Pretty Nancy nel quale ci parla di Nancy Regan (quando ancora non era first lady ma «solo» la moglie del Governatore della California) o Raggiungere la serenità dove racconta di un incontro dei Giocatori Anonimi a cui la scrittrice ha preso parte. In questi testi prevale la Joan Didion giornalista sui generis (non a caso è considerata insieme a Capote e Wolf tra gli inventori del new journalism), capace di dare alla prospettiva del narratore – la sua – un’importanza maggiore rispetto alla materia narrata, che ha invece sempre prevalso nel giornalismo «classico». E a tal proposito, un’altra chicca è Alicia e la stampa underground dove Didion ci dice «non fraintendetemi: tengo in grande conto l’obiettività, ma non riesco proprio a capire come possa essere conseguita se il lettore non capisce la parzialità di chi scrive».

    Perché leggerlo? Perché di Didion si dovrebbe leggere tutto, pure le sue liste della spesa se le avessimo! E perché in questa raccolta c’è Sul non essere scelti dall’università di propria scelta, che chiunque – dall’adolescente che si appresta a decidere per il proprio futuro, all’adulto che almeno una volta nella vita ha sperimentato un rifiuto da parte di qualche istituzione scolastica o lavorativa – dovrebbe leggere.

    Una citazione dal libro: «E ovviamente nessuna di queste cose conta davvero, nessuno di quei primi successi, di quei primi fallimenti. Mi chiedo se non sarebbe meglio trovare un modo di farlo capire ai nostri figli, un modo per districare le nostre speranze dalle loro, per far gestire a loro i rifiuti, le ribellioni astiose e gli intermezzi con i professionisti del golf, senza l’aiuto di suggeritori ansiogeni dagli spalti. Trovare il proprio ruolo a diciassette anni è già un problema, anche senza che ci venga consegnato il copione di qualcun altro».

    Nicolò S. Centemero
    Newsletter 36 - Gennaio 2022

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