Libri
- Il Cristo iracheno
Hassan Blasim
Utopia, Milano, 2022Poeta, editor, regista e scrittore iracheno, Hassan Blasim, classe ’73, dopo gli studi in patria all’Accademia di arte cinematografica, a causa ...
Poeta, editor, regista e scrittore iracheno, Hassan Blasim, classe ’73, dopo gli studi in patria all’Accademia di arte cinematografica, a causa della critica politica e sociale presente all’interno delle sue opere, è stato costretto alla fuga e ora vive da rifugiato in Finlandia.
Di Blasim, che l’inglese The Guardian non ha esitato a definire «il più grande scrittore vivente di lingua araba», è da pochissimo uscita in italiano la raccolta di racconti Il Cristo Iracheno.
Si tratta di 12 racconti di circa una decina di pagine ciascuno, nei quali dal reale si passa spesso al fantastico nel giro di una frase oppure, in altri casi, i due elementi si fondono in maniera indissolubile, generando un effetto straniante e dirompente nel lettore, ulteriormente amplificato da una prosa cruda, durissima e a tratti macabra.
È difficile che in una raccolta di racconti il livello si mantenga sempre elevato, ma in questo caso ci troviamo davvero davanti a una «eccezione che conferma la regola». Grazie anche alle tematiche, che mantengono le storie tra loro unite da un fil rouge fatto di guerra, fanatismo, terrorismo, emigrazione e soprattutto profondi traumi umani, lo scrittore arabo, che purtroppo conosce fin troppo bene la materia di cui racconta, è stato capace – servendosi anche di un bagaglio culturale fatto di una certa letteratura americana e sudamericana – di creare racconti memorabili e strazianti, i cui protagonisti, come solo quelli della grande letteratura sanno fare, ti lacerano e ti «rimango dentro».
Perché leggerlo? Perché, usando le parole di Gerardo Masuccio, editor della casa editrice Utopia (che sarà ospite de «Gli scrittori e la Malattia» l’8 febbraio qui il link) «se la vita, nei suoi orizzonti certi, è attraversata da un dolore inesprimibile, è lecito trovare nell’illusione la forza per sfidare l’oggi e osare un nuovo domani».
Una citazione dal libro: «Ho trascorso gli anni della mia infanzia e dell’adolescenza a spiare tutti come un cecchino nascosto nel buio. Miravo e facevo fuoco. Sparavo sugli incubi della mia vita con altri incubi, i miei incubi immaginari. Mi figuravo scene in cui mia madre e gli altri venivano torturati, e nel mio libro di scuola disegnavo enormi camion che schiacciavano le teste dei bambini».
Federica Merlo
Newsletter 36 - Gennaio 2022ChiudiLeggi la recensione
- Perché scrivo
Joan Didon
Il Saggiatore, Milano, 2022A un anno dalla scomparsa di Joan Didion, Il Saggiatore pubblica Perché Scrivo, ultima raccolta di saggi (uscita negli States ...
A un anno dalla scomparsa di Joan Didion, Il Saggiatore pubblica Perché Scrivo, ultima raccolta di saggi (uscita negli States nel 2021) della scrittrice californiana, celebre per il memoir L’anno del pensiero magico.
Parlando di Didion, il pubblico dei suoi lettori si divide in due gruppi: quelli che ne amano l’intera produzione e quelli che la considerano una tra le più grandi scrittrici di non fiction del Novecento – ignorando volutamente i suoi romanzi e ritenendoli qualitativamente e per importanza opere minori. Io sto assolutamente coi primi e con un po’ di presunzione mi permetto di suggerirvi di leggere, oltre alle opere più celebri come L’anno del pensiero magico, Blue Nights e The White album – indubbiamente dei capolavori assoluti – anche i romanzi Run River, Prendila così, Miami e Diglielo da parte mia.
Detto ciò, arriviamo a Perché scrivo… e ci arriviamo dicendo che il saggio Perché scrivo, che dà il titolo all’intera raccolta, è quello che dichiara in maniera esplicita uno dei nuclei tematici più importanti, presente anche in altri testi come Raccontare Storie e Ultime parole. Didion, infatti, qui più che in altre precedenti pubblicazioni di non fiction, parla spesso della sua arte, della «scrittura come soggetto, la scrittura come modo di vita» (Hilton Als, nella prefazione).
Non mancano però anche saggi dedicati agli Stati Uniti dello scorso secolo, tra cui Pretty Nancy nel quale ci parla di Nancy Regan (quando ancora non era first lady ma «solo» la moglie del Governatore della California) o Raggiungere la serenità dove racconta di un incontro dei Giocatori Anonimi a cui la scrittrice ha preso parte. In questi testi prevale la Joan Didion giornalista sui generis (non a caso è considerata insieme a Capote e Wolf tra gli inventori del new journalism), capace di dare alla prospettiva del narratore – la sua – un’importanza maggiore rispetto alla materia narrata, che ha invece sempre prevalso nel giornalismo «classico». E a tal proposito, un’altra chicca è Alicia e la stampa underground dove Didion ci dice «non fraintendetemi: tengo in grande conto l’obiettività, ma non riesco proprio a capire come possa essere conseguita se il lettore non capisce la parzialità di chi scrive».Perché leggerlo? Perché di Didion si dovrebbe leggere tutto, pure le sue liste della spesa se le avessimo! E perché in questa raccolta c’è Sul non essere scelti dall’università di propria scelta, che chiunque – dall’adolescente che si appresta a decidere per il proprio futuro, all’adulto che almeno una volta nella vita ha sperimentato un rifiuto da parte di qualche istituzione scolastica o lavorativa – dovrebbe leggere.
Una citazione dal libro: «E ovviamente nessuna di queste cose conta davvero, nessuno di quei primi successi, di quei primi fallimenti. Mi chiedo se non sarebbe meglio trovare un modo di farlo capire ai nostri figli, un modo per districare le nostre speranze dalle loro, per far gestire a loro i rifiuti, le ribellioni astiose e gli intermezzi con i professionisti del golf, senza l’aiuto di suggeritori ansiogeni dagli spalti. Trovare il proprio ruolo a diciassette anni è già un problema, anche senza che ci venga consegnato il copione di qualcun altro».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 36 - Gennaio 2022ChiudiLeggi la recensione
- Storia delle prime volte
Stiliana Milkova
Voland, Roma, 2022Se c’è una cosa che mi ha sempre affascinato è come alcuni scrittori siano così capaci di dominare la parola da riuscire a ...
Se c’è una cosa che mi ha sempre affascinato è come alcuni scrittori siano così capaci di dominare la parola da riuscire a portare a termine opere letterarie di altissima qualità pur non scrivendole nella propria lingua madre (ogni riferimento a Nabokov e Beckett è puramente casuale).
È il caso anche di quanto fatto da Stiliana Milkova in questo suo esordio, Storia delle prime volte. Milkova, infatti, pur essendo nata e cresciuta in Bulgaria e pur vivendo attualmente negli Stati Uniti dove insegna ed è una tra le maggiori studiose di Elena Ferrante, ha deciso di scrivere questo suo primo libro di narrativa in italiano, lingua dei suoi studi e delle sue ricerche.
Venendo al testo, Storia delle prime volte è una raccolta di dieci racconti di lunghezza differente, che, come scrive Demetrio Paolin su la Lettura del Corriere della Sera «nasce dalla letteratura e si nutre di essa». Protagonisti, infatti, sono scrittori, stagisti, editori, caporedattori, attori, filologi, lettori, studenti universitari e dottorandi che nelle varie storie, tutte indipendenti tra loro, si dipanano tra amori, partenze, viaggi e addi, dipingendoci un universo professionale, quello letterario, estremamente reale e realistico.
Sempre Paolin su la Lettura individua uno dei nuclei tematici che tiene insieme tutti i racconti, ovvero quello dello «sradicamento». Senza dubbio, nei personaggi di Milkova ci ritroviamo esperienze vissute in prima persona dalla scrittrice, la cui vita di studiosa lontana dalla patria d’origine, se da un lato le ha permesso di vivere esperienze estremamente arricchenti e interessanti, dall’altro l’ha anche costretta alla solitudine delle stazioni ferroviarie, degli appartamenti in affitto, delle cene nei ristoranti… di tutte quelle cose che ci tengono lontani dall’appartenenza, lontani dalle nostre radici.Perché leggerlo? Perché, oltre a molti Stati Uniti, c’è anche molta Italia in Storia delle prime volte. Consiglio, in particolare, La Lucina, ambientato sopra i tetti di Torino – a mio avviso il racconto più particolare e riuscito di questa bella raccolta.
Una citazione dal libro: «Sedevo a un tavolo in fondo. Il ristorante – una piccola trattoria nel quartiere di San Lorenzo – era vuoto tranne che per due donne vicino alla finestra spalancata e un uomo al tavolo accanto al loro. Quando abito all’estero mi piace cenare da sola – mi dà tempo per riflettere, per osservare. Mi fa sentire più immersa nella corsa del mondo, più viva».
Federica Merlo
Newsletter 35 - Dicembre 2022ChiudiLeggi la recensione
- La stella del mattino
Karl Ove Knausgård
Feltrinelli, Milano, 2022Considerato il Proust contemporaneo per aver scritto La mia lotta, una sua autobiografia romanzata in sei volumi, ...
Considerato il Proust contemporaneo per aver scritto La mia lotta, una sua autobiografia romanzata in sei volumi, Karl Ove Knausgaard – insieme a Jon Fosse (la recensione di un suo romanzo qui), di cui fu allievo – è attualmente lo scrittore norvegese più celebre. La stella del mattino, che in patria uscì nel 2020 e da noi è arrivato recentemente, segna il ritorno di Knausgaard alla fiction, con la quale iniziò la sua carriera.
Siamo di fronte a un romanzo massimalista e polifonico, ambientato nella Norvegia contemporanea, nelle cui 666 pagine (il numero non è casuale!) seguiamo le vicende di nove personaggi. C’è il giornalista di cronaca passato alla cultura, c’è una pastora luterana, un’infermiera di sala operatoria… insomma, c’è una normale routine di vite borghesi che affrontano i loro piccoli e grandi problemi quotidiani. Tuttavia, a un certo punto, compare un elemento di turbamento «esterno»: la stella del titolo che, brillantissima nel cielo, diventa per tutti, sin da subito, un fenomeno misterioso, mai visto e inspiegabile. Molteplici nel romanzo i riferimenti biblici (la stella è Lucifero? È il segnale dell’Apocalisse?) e gli episodi soprannaturali, così come sempre presente nel lettore è la tensione per qualcosa di imminente che sta per accadere.
A livello di scrittura ritroviamo, anche nella forma romanzo, una prosa elevata ma mai complessa e quel gusto per il dettaglio e per l’ordinario che lo scrittore norvegese aveva già dimostrato nei sei volumi de La mia lotta e nel suo successivo quartetto delle stagioni (tutti editi in Italia per Feltrinelli e consigliatissimi).Perché leggerlo? Perché oltre ad essere uno dei cinque-sei titoli più interessanti usciti quest’anno contiene anche un sacco di musica – qui ho provato a raccogliere un po’ dei pezzi citati.
Una citazione dal libro: «La luce non stava riempiendo il giardino, pensai, era il contrario, lo stava svuotando. Del buio, ma anche di significato. Il vuoto presente nel mondo. Ma sapevo anche che il mio modo di pensare era sbagliato. Il significato era qualcosa che veniva da noi stessi. Il significato era qualcosa che noi davamo al mondo, non che ricevevamo da esso».
Federica Merlo
Newsletter 35 - Dicembre 2022ChiudiLeggi la recensione
- HERSCHT 07769
László Krasznahorkai
Bompiani, Milano, 2022László Krasnahorkai, all’ultima assegnazione del premio Nobel per la letteratura il mese scorso era in lizza tra i possibili vincitori. Ed è ...
László Krasnahorkai, all’ultima assegnazione del premio Nobel per la letteratura il mese scorso era in lizza tra i possibili vincitori. Ed è così, ormai, da parecchi anni. Non bastasse, per sottolineare quanto questo scrittore ungherese si collochi di diritto tra le figure più importanti nell’attuale panorama letterario, aggiungo, solo per fare un esempio, che nel 2015 il suo splendido Satantango (da cui nientepopodimeno che Béla Tarr ha tratto un film di, udite, udite, sette ore e mezza!) ha vinto l’International Man Booker Prize.
L’ultima fatica di Krasznahorkai, uscito in patria nel 2021 e portato in Italia recentemente da Bompiani, che ne pubblica tutta l’opera nell’ottima traduzione di Dora Varnai, è HERSCHT 07769, romanzo in una sola frase, senza punti, di quasi 500 pagine. Eh, sì, già.
Tuttavia, se state pensando che sia la solita opera priva di trama, incomprensibile o noiosissima… beh, grave errore. Primo, perché dopo qualche riga vi sarete già totalmente scordati della punteggiatura e starete leggendo con gusto e ritmo una delle prose più belle in circolazione. Secondo, perché le vicende del protagonista Florian Herscht, abitante di un piccolo borgo della Turingia di nome Kana, vicino alla città di Jena (il romanzo è tutto ambientato in Germania), vi trascineranno pagina dopo pagina, costringendovi a uno sforzo notevolissimo quando proverete a mollarle.
Ma di cosa parla questo libro? Allora, davvero difficile, se non impossibile provare a scriverlo. Più ci penso e più penso che, volendo riassumere in poche parole quanto c’è al suo interno, direi che Krasznahorkai ha tentato di descrivere a suo modo e con una certa ironia quello che potrebbe accadere nel nostro contemporaneo in un qualsiasi paese di provincia quando, per svariate ragioni che purtroppo ben conosciamo – odio razziale, diffidenza nei confronti del diverso, l’arrivo di una malattia che minaccia la nostra salute – si inizia a sospettare, ad aver paura e a dare colpe a chi ci sta attorno.Perché leggerlo? Questa volta è una motivazione un po’ egoista, ma direi perché mi piacerebbe che qualcuno più esperto di quanto non lo sia io di musica classica e in particolare di Bach, fosse in grado di cogliere le ragioni per le quali il sottotitolo di questo libro sia «il romanzo Bachiano di Florian Herscht» e perché Bach e la sua musica siano così tanto presenti (e poi magari, una volta scoperte, mi contatti e me le spieghi 🙂 ).
Una citazione dal libro: «[…] perché l’arte di Bach è una STRUTTURA STABILE, e rimarrà tale per sempre, è come l’ideale, come un cristallo perfetto, come la superficie di una goccia d’acqua, indecifrabile nella sua stabilità, indecifrabile nella sua perfezione, e anche se ovviamente la si poteva mettere per iscritto, non poteva essere afferrata, colta, capita, perché l’essenza della musica si sottraeva al gesto intellettuale che cercava di afferrarla, perché c’è qualcosa che non siamo capaci di fare, pensò il cervello di Florian, e questo è naturale, e cioè capire il perché la perfezione non abbia in realtà un’essenza, perché dobbiamo dire che la perfezione semplicemente esiste, ma senza un’essenza, quando non ci rimane altro che l’ammirazione, questo pensò il cervello di Florian, […]»
Federica Merlo
Newsletter 34 - Novembre 2022ChiudiLeggi la recensione
- Eroina
Vanessa Roghi
Einaudi, Torino, 2022Eroina – Dieci storie di ieri e di oggi, uscito nella collana, ormai cult, ...
Eroina – Dieci storie di ieri e di oggi, uscito nella collana, ormai cult, Strade Blu di Mondadori nell’ottobre di quest’anno mi ha spiazzato. Sì! Mi ha spiazzato perché tutto mi sarei aspettata di leggere nel 2022 tranne che un saggio storico – ben scritto e con una cura meticolosa per fonti e citazioni – che racconta la storia della malattia da eroina in Italia. Perché, se è vero che di recente la serie televisiva «SanPa» sulla comunità di San Patrignano di Vincenzo Muccioli e qualche incursione di notizie dagli Stati Uniti rispetto alla crisi degli oppiodi che sta mietendo moltissime vittime (100.000 morti per Fentanyl e altri oppioidi solo nel 2021 negli States!) abbiano contribuito a riportare una certa attenzione nei confronti di questa sostanza, sono anni che di eroina se ne parla pochissimo, come se il «problema» non esistesse più. E, purtroppo, non è affatto così.
Vanessa Roghi, che da tempo invece si occupa di malattia da eroina (si legga anche un altro suo libro, Piccola città. Una storia comune di eroina (2018)) ha quindi il merito, non solo di mantenere alta l’attenzione ma anche di ribadire, attraverso uno sguardo – mi si conceda il termine – «sociale», che la malattia da eroina è ancora una realtà (vengono portati anche esempi attuali nel testo) e che in quanto tale va affrontata mettendo «in campo tutti i tipi di interventi necessari ad affrontarla. Perché una malattia sociale deve prevedere una convivenza di qualche tipo con i malati. Anche perché la malattia da eroina, come moltissime malattie, non prevede in molti casi una guarigione totale».
Vale inoltre la pena sottolineare come l’autrice abbia anche inserito delle pagine lucidissime sulla trasformazione del drogato eroinomane da problema «reale» e «serio» a «flagello», negli anni in cui arrivarono in Italia i primi casi di AIDS (1982).Perché leggerlo? Perché, come scrive Roghi, «anche un libro di storia può essere utile. Perché occorre maggiore informazione, maggiore consapevolezza, a ogni livello» per comprendere gli errori commessi e non ripeterli.
Una citazione dal libro: «Senza dubbio un mondo senza alcuna dipendenza sarebbe migliore: dipendenza da sostanze, da consumi, dipendenza affettiva, dipendenza economica. In attesa di quel giorno dobbiamo concentrarci sulle pratiche che cambiano materialmente in meglio la vita delle persone. «La guarigione è portentosa, salvifica, miracolosa. Definire uno stato di astensione dall’uso di eroina che si protrae da un anno come una guarigione può essere corretto (con molte riserve), ma non è utile ed è pericoloso. Più corretto, saggio e prudente parlare di remissione, che indica la scomparsa dei sintomi della malattia, ma non delle condizioni che l’hanno provocata. La persona rimane vulnerabile, anche se in benessere, e potrebbe ancora esprimere il sintomo. La parola remissione non deve spaventare, non è una svalutazione dello sforzo effettuato, né una minaccia incombente, quanto un termine più appropriato per indicare la scomparsa completa dei sintomi in una malattia cronica, che può recidivare. La remissione, però, può durare tutta la vita.» Facciamo in modo che questa vita sia piena e degna di essere vissuta».
Federica Merlo
Newsletter 34 - Novembre 2022ChiudiLeggi la recensione
- Il dio disarmato
Andrea Pomella
Einaudi, Torino, 2022Andrea Pomella, dopo una trilogia autobiografica composta da Anni luce, L’uomo che trema e I colpevoli (di quest’ultimo ...
Andrea Pomella, dopo una trilogia autobiografica composta da Anni luce, L’uomo che trema e I colpevoli (di quest’ultimo trovate qui la nostra recensione), nel suo nuovo romanzo decide di narrare un fatto di cronaca nera che ha cambiato per sempre la politica e la storia italiana: il rapimento di Aldo Moro.
Prima di approcciare il libro, ero un po’ preoccupata. Ho infatti temuto che questa scelta avesse portato lo scrittore romano a ripetere cose già dette da altri o ad aggiungere materiale al già moltissimo materiale presente – sulla vicenda sono stati scritti miriadi di documenti, articoli e racconti, più o meno fedeli, a quanto accadde il 16 marzo 1978 in via Fani.
Invece, Andrea Pomella, come solo i grandi sanno e devono fare, è stato capace di costruire un’opera nuova, diversa e nella quale si percepisce in ogni riga la sua scrittura, la sua «presenza». Rubando le parole da lui usate in una recente presentazione, quello che ha fatto ne Il dio disarmato è stato sezionare, entrando negli atomi del tempo, i tre minuti dell’agguato, andando alla ricerca di una verità che non è la verità storica (non spetta infatti allo scrittore fare questo, ma agli storici, ai giornalisti, ai magistrati), ma una verità più profonda, «percettiva» di ciò che è stato Aldo Moro e di ciò che di lui è rimasto nel DNA dell’Italia.
Mi sono quindi preoccupata per niente? Sì. Il dio disarmato è l’ennesima conferma di uno scrittore eccellente, capace di confrontarsi con nuove sfide e che riesce sempre a spiazzare il lettore, regalandogli una prosa tra le più eleganti in circolazione e lasciandolo, a libro concluso, pieno zeppo di materia su cui riflettere.Perché leggerlo? In questo caso ce ne sarebbero mille di perché… perché nell’agguato di via Fani morirono cinque persone della scorta – Iozzino, Rivera, Leonardi, Ricci e Zizzi – e non vanno dimenticate; perché Aldo Moro era anche la sua famiglia e Pomella di questo non solo ne è consapevole ma lo racconta in maniera raffinata e mai retorica; perché a scuola troppo spesso la storia vicina fa paura e di conseguenza non la si insegna a dovere – ben vengano libri come questo; perché… per tutti gli altri perché che ci troverete, senz’altro, anche voi.
Una citazione dal libro: «La natura è asciutta e pratica, e ciò che sta per succedere ai protagonisti di questa storia, presto o tardi succederà a me che scrivo e a te che stai leggendo, succederà ai nostri figli e ai figli dei nostri figli, al nostro migliore amico e al nostro peggior nemico, e per ognuno ci sarà, senza saperlo, quell’ora, il prima, l’ultimo primadi uno sconfinato dopo».
Federica Merlo
Newsletter #33, ottobre 2022ChiudiLeggi la recensione
- La più recondita memoria degli uomini
Mohamed Mbougar Sarr
Edizioni e/o, Roma, 2022Diciamo che avere 32 anni, quattro romanzi pluripremiati all’attivo di cui l’ultimo, La più recondita memoria degli uomini, ha ...
Diciamo che avere 32 anni, quattro romanzi pluripremiati all’attivo di cui l’ultimo, La più recondita memoria degli uomini, ha vinto uno dei riconoscimenti letterari più importanti e prestigiosi al mondo, il francese prix Goncourt nel 2021, non è cosa che capita di frequente? Diciamolo. E allora, prima di tutto, chapeau allo scrittore senegalese Mohamed Mbougar Sarr!
Fatte queste doverosissime premesse… ad oggi La più recondita memoria degli uomini è non solo tra i libri più belli da me letti quest’anno, ma anche quello che mi è «rimasto dentro» di più (come dicono quelli bravi). Le ragioni sono svariate ma probabilmente tutte ascrivibili, alla fin della fiera, al fatto che questo è un romanzo che trasuda letteratura da tutti i pori (quindi wow!). E non solo, sulla letteratura ci riflette pure e lo fa alla grande. E poi la cosa straordinaria (nel senso di fuori dall’ordinario) è che questa riflessione non è fine a sé stessa (beninteso, non ci avrei visto comunque nulla di male anche fosse stato così) ma continuamente e sapientemente legata al tema gigantesco di cui Sarr ci vuole parlare e cioè, quello dell’identità di uno scrittore (degli scrittori) nero (neri) immigrato (immigrati) in Francia, da un’ex-colonia francese, ai giorni nostri.
Ma la domanda adesso è, come cavolo riesco a dirvi di più di queste 432 pagine, nelle quali troviamo un protagonista, il giovane scrittore Diégane Latyr Faye, caratterizzato in maniera sublime (parecchio autobiografico, eh), tanti personaggi interessantissimi che gli ruotano attorno, un libro misterioso, Il Labirinto del disumano, l’unico della produzione di uno scrittore africano poi svanito nel nulla, che cambia le vite di chi lo legge e sulle cui tracce si butta, ovviamente, il protagonista e poi tanta, tanta meta-letteratura sparsa qua e là… su dai, capite bene che l’impresa è impossibile e si rischierebbe un pasticcio peggio di quello fatto sin qui. Ma che vi devo dire, dò la colpa all’entusiasmo del lettore, perché quando a noi ci capitano queste epifanie… ciao. Quindi, leggete Sarr. Punto. E, viva la letteratura. Punto.Perché leggerlo? Mi gioco il perché più semplice, che poi è anche quello che si trova nelle prime quattro righe della recensione. È inutile, il prix Goncourt rimane, ad oggi, una garanzia di assoluta qualità (non sbaglia un colpo, insomma!).
Una citazione dal libro: «Un vero scrittore, aveva aggiunto, suscita discussioni mortali tra i veri lettori, che sono sempre in guerra; se non sei pronto ad affrontare il terrore nell’arena pur di accaparrarti la sua carcassa come nel gioco del buzkaschi, lèvati dai piedi e vai a morire nella tua pisciatina tiepida che scambi per birra di qualità: sei tutto meno che un lettore, e ancora meno uno scrittore».
Nicolò S. Centemero
Newsletter #33, ottobre 2022ChiudiLeggi la recensione