Libri
- Come d’aria
Ada D’Adamo
Elliot, Roma, 2023Il 6 luglio il memoir di Ada d’Adamo, Come d’aria, ha vinto lo Strega, il più importante e prestigioso premio letterario italiano. D’Adamo, prima di ...
Il 6 luglio il memoir di Ada d’Adamo, Come d’aria, ha vinto lo Strega, il più importante e prestigioso premio letterario italiano. D’Adamo, prima di esordire proprio con Come d’aria, era una ballerina, coreografa e studiosa di danza. Era, perché proprio nei giorni in cui il suo libro passava le selezioni e veniva annunciato tra i dodici finalisti, la scrittrice è morta a causa del tumore al seno che l’ha colpita alcuni anni fa.
In «Sullo scaffale» cerchiamo, come avrete notato, di ampliare un po’ gli orizzonti e presentarvi testi che non siano unicamente legati alle tematiche di cui abitualmente si occupa la Fondazione Sasso Corbaro (l’etica clinica, la cura, la malattia…).
Tuttavia, in questo caso, non potevo esimermi dallo scrivere qualche riga per consigliarvi Come d’aria, perché, da tempo, non leggevo un libro in cui disabilità e malattia vengono trattate in maniera così onesta e potente e, soprattutto, senza il ricorso a una retorica stucchevole – brutto vizio di molti testi che trattano questi argomenti.
D’Adamo, nel suo Come d’aria, prima ancora di parlarci del suo tumore, del suo scoprirsi malata, ci racconta però della nascita della figlia Daria (bella la scelta di usare un poetico gioco di parole come titolo!), vera protagonista del libro, affetta da oloprosencefalia, una rara malattia cerebrale che la rende invalida al cento per cento.
Considerando che il libro è breve e in un pomeriggio riuscite a leggerlo, in un fiato, dall’inizio alla fine, non mi voglio dilungare oltre. Concludo, invece, citando le parole di un articolo molto interessante uscito su Il Manifesto l’indomani della vittoria di d’Adamo allo Strega, nel quale Laura Marzi, dice che Come d’aria è anche un romanzo politico: «nella volontà e nel coraggio di esprimere il dolore e il rifiuto di chi si deve prendere cura dell’altra, mostrando che tale rifiuto non è sintomo di pochezza o malignità, è invece componente ineludibile della verità della cura, dell’umanità di chi, come Ada D’Adamo per esempio, si è sentita disperata e furiosa di fronte ai pianti incoercibili di Daria».Perché leggerlo? Perché Come d’aria dimostra che la letteratura è un’arte «malleabile», «plasmabile», e può anche diventare, come in questo caso, uno strumento per raccontare la solitudine a cui i pazienti e i loro cari vanno incontro quando manca loro un’adeguato sostegno da parte delle istituzioni.
Una citazione dal libro: «È dura da ammettere, ma seguendoti nella tua giovane vita, ho capito che esiste una disabilità “bella” e una disabilità “brutta” e che anche in questo “mondo a parte” le persone – dagli sconosciuti, ai terapisti, ai medici – subiscono il fascino del bello, proprio come avviene nel “mondo normale”. All’inizio questo mi infastidiva, mi domandavo se fosse giusto che gli altri si avvicinassero a te solo perché eri bella. Ma poi in quel “solo” ho trovato il senso più nobile e profondo della parola bellezza. Ho pensato che ciascuno di noi riceve almeno un dono dalla vita e che, nella sfiga generale, tanto vale approfittarne. Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te».
Federica Merlo
Newsletter 42 - Luglio 2023ChiudiLeggi la recensione
- Il fuoco invisibile
Daniele Rielli
Rizzoli, Milano, 2023Dal 2013 il batterio Xylella, proveniente da una pianta ornamentale importata dal Costa Rica, è responsabile di una gigantesca moria di ulivi – 21 milioni a oggi – nel Salento, zona della ...
Dal 2013 il batterio Xylella, proveniente da una pianta ornamentale importata dal Costa Rica, è responsabile di una gigantesca moria di ulivi – 21 milioni a oggi – nel Salento, zona della Puglia all’estremo sud di questa regione.
Da poco è uscito un libro, Il fuoco invisibile, che ha per protagonista proprio questa epidemia. L’ha scritto Daniele Rielli (salentino di origini, bolzanino di adozione – il padre, un medico pugliese, emigrò con la famiglia in Alto Adige) un romanziere dalla penna straordinaria (Lascia stare la gallina e Odio), giornalista e anche podcaster (PDR).
Rielli, nella sua «storia umana di un disastro naturale» (sottotitolo del libro) ci racconta non solo le fasi iniziali, dalla scoperta dell’agente patogeno alla sua progressiva diffusione, ma si concentra, in particolare, sul come non si sia ancora riusciti a contenere in alcun modo l’avanzare verso nord della malattia per colpa di una classe politica sempre e solo rivolta ai propri interessi e della popolazione raggirata dalle teorie del complotto.
Non aspettatevi però un saggio, sebbene il lavoro di documentazione dello scrittore sia davvero significativo (pubblicazioni scientifiche e interviste con professori universitari, ricercatori, coltivatori, politici, personalità influenti, avvocati e magistrati), perché Il fuoco invisibile è più che altro un’opera letteraria multiforme: un po’, certamente, racconto di quanto è avvenuto e ancora, purtroppo, avviene in quelle terre, un po’ analisi di come i negazionisti siano stati in grado di convincere moltissimi agricoltori a opporsi agli abbattimenti preventivi (unica strategia, al momento, in grado di contrastare l’avanzata del batterio) e un po’ racconto autobiografico dello scrittore e del suo rapporto con il nonno e il padre, legati da una forza arcaica, misteriosa e potentissima ai loro ulivi – maestose piante secolari, ritenute dalle leggende popolari immortali.Perché leggerlo? Per cercare di capire come nascano le false teorie e come queste siano capaci di prevalere sulle spiegazioni scientifiche e, sfruttando i social network, di diffondersi all’interno della popolazione. Ma anche per fare interessanti paragoni con quanto di spaventosamente simile, a livello di comunicazione delle informazioni, abbiamo appena vissuto durante la pandemia di Covid-19.
Una citazione dal libro: «Spesso qualcuno di loro si spinge fino al vigneto dove lui sta lavorando e pretende di controllare se i prodotti che usa siano o non siano bio. Un giorno un professore di filosofia con il codino, che fa parte del gruppo di negazionisti, è partito con la solita filippica e Curci non ce l’ha fatta più: “ma tu lo sai perché abbiamo una sola bocca e due orecchie? Perché bisogna ascoltare il doppio e parlare la metà, ma vaffanculo, và”».
Federica Merlo
Newsletter 42 - Luglio 2023ChiudiLeggi la recensione
- Il cerchio perfetto
Claudia Petrucci
Sellerio, Palermo, 2023A tre anni di distanza da L’esercizio, bellissimo romanzo d’esordio (qui recensito in ...
A tre anni di distanza da L’esercizio, bellissimo romanzo d’esordio (qui recensito in Sullo Scaffale), torna Claudia Petrucci, scrittrice italiana che vive in Australia, a Perth. Il cerchio perfetto, questo il titolo, uscito di recente per i tipi di Sellerio, è un romanzo distopico che, pur mantenendo l’ambientazione milanese de L’Esercizio, da questo si discosta per le tematiche che tratta. Infatti, Petrucci, in questa sua seconda storia, dal mondo del teatro e della malattia mentale, si sposta a quello dell’architettura e del mercato immobiliare, confermando così la capacità di trovarsi a suo agio in contesti molto specifici – si capisce, insomma, che quanto scrive è frutto di un gran lavoro di documentazione, sebbene questo non dia mai l’idea di essere forzato o uno sfoggio di conoscenza fine a sé stesso.
La vicenda, che assumerà tinte da thriller pur non essendolo, segue due linee narrative intrecciate, entrambe con le loro protagoniste: Lidia, ragazza borghese di una Milano «da bere» degli anni Ottanta e Irene, agente immobiliare nella stessa città, all’incirca una quarantina-cinquantina d’anni dopo (volutamente, Petrucci non fornisce in questo secondo caso precisi dettagli temporali, ma facilmente si intuisce che Irene si trova in un futuro a noi molto prossimo).
Può bastare così, altrimenti il rischio è quello di togliervi il gusto della lettura di un romanzo che arriva poco oltre le 200 pagine, si legge d’un fiato e ha quel ritmo – e pure alcuni colpi di scena – che lo rendono davvero coinvolgente. Aggiungo però una nota conclusiva, un parere personalissimo che, come tale, vorrei fosse preso: Il cerchio perfetto è sicuramente un libro più maturo a livello di scrittura, più asciutto, però per me non ha la potenza de L’esercizio (dal quale vi consiglierei comunque di partire per conoscere Petrucci). Tuttavia, e bisogna riconoscerlo perché i premi letterari più importanti non l’hanno fatto – peccato! Il cerchio perfetto è, senza dubbio, tra i migliori romanzi italiani sin qui pubblicati quest’anno.Perché leggerlo? Perché Petrucci è una voce nuova, potente e «diversa» dalla troppa normalità che si trova in libreria ultimamente. E poi, anche per questo incipit, stupendo, che trovate qui.
Una citazione dal libro: «[…] per quanto la flessibilità, la condivisione, l’abbandono della tradizione borghese, la libertà, la libertà di viaggiare, di spostarsi, per quanto tutta questa narrazione nauseante miri a farci sentire meno soli, meno dispersi, parte di un insieme di milioni di individui pronti alla fuga, per quanto la nostra giovinezza ci venga raccontata come una dote irrinunciabile, io sento di aver perso tutto. Lo dico con pace, con serenità, e senza alcun rancore, perché era inevitabile: abbiamo perso tutto».
Federica Merlo
Newsletter 41 - Giugno 2023ChiudiLeggi la recensione
- Il passeggero
Cormac McCarthy
Einaudi, Torino, 2023I non lettori conoscono Cormac McCarthy perché da un suo libro – minore, a onor del vero – è stato tratto quel meraviglioso film che è Non è un paese per vecchi, ...
I non lettori conoscono Cormac McCarthy perché da un suo libro – minore, a onor del vero – è stato tratto quel meraviglioso film che è Non è un paese per vecchi, dei fratelli Cohen. Per i lettori invece, questo signore, morto pochi giorni fa, il 13 giugno 2023, appena prima di compiere novant’anni, è noto soprattutto per Suttree, per la Trilogia della frontiera, per Meridiano di sangue e per La strada, insignito del premio Pulitzer nel 2007.
McCarthy, che mancava alla scrittura da ormai 16 anni (proprio da La strada), ha finalmente dato alle stampe, a ottobre dell’anno scorso negli States e da poco in Italia (con la traduzione – una impresa non da poco! – della bravissima Maurizia Balmelli), Il passeggero. Il romanzo in realtà è parte di un dittico, di una dualogia, composta anche da Stella Maris, già uscito in inglese e che in Italia, sempre per Einaudi, che di McCarthy detiene i diritti di tutte le opere, uscirà il 23 settembre.
Sarà che è la recente dipartita di un mio mito, sarà che attendevo da moltissimo Il passeggero, sarà che l’ho amato come, del resto è accaduto per tanti altri suoi libri, alla follia… ma mi viene estremamente difficile recensire questo ennesimo capolavoro. Perché sì, a mio modestissimo parere (ma se vi andate a leggere le varie recensioni delle più importanti testate americane – il New Yorker, per fare un nome a caso – mi pare che io sia piuttosto allineato a quanto di questo libro si racconta in giro) siamo ancora di fronte a un capolavoro, a «un’impresa più grande di Meridiano di sangue, il suo capolavoro più antico, o di La strada, il suo capolavoro più recente» come ha scritto il critico Graeme Wood sul The Atlantic.
E allora, in breve, brevissimo, vi dico solo che è la storia di due fratelli, Bobby e Alicia Western e del loro amore. Aggiungo che 10 anni prima, lei, è morta suicida e lui, per questo, non si da pace. Aggiungo che Alicia era un genio, un genio malato di schizofrenia paranoide. Aggiungo che tanto amore come quello che c’è ne Il passeggero, io l’ho letto raramente. Che due personaggi così belli, io, tra le pagine di un libro li ho incontrati raramente. Aggiungo che ci sono, come sempre in McCarthy tanti Stati Uniti – il Vietnam, la bomba atomica, la CIA – tanta scienza – fisica quantistica e matematica, in questo caso – e il tema della morte. Aggiungo che la scrittura è… beh, perfetta. E poi… e poi allora finisco col dirvi che per leggerlo potete al massimo aspettare settembre… perché io che non l’ho fatto, ora sto attendendo con ansia e trepidazione (e la triste consapevolezza che sarà l’ultimo romanzo del grandissimo Cormac McCarthy), Stella Maris.Perché leggerlo? Per quell’amore lì, di cui vi parlavo poc’anzi. E per quella scrittura lì, non gradini, ma scalinate intere sopra a tanti.
Una citazione dal libro: «Era stato suo padre a portarla da tutti quei medici. Lui che se ne stava seduto al tavolo di cucina nel vecchio cascinale con lo sguardo fuori sui campi fino al torrente e ai boschi al di là. Si era annotato su un taccuino le cose che lei aveva detto e lui non aveva capito e le leggeva e rileggeva finché alla fine forse si è reso conto che la sua malattia – come lui la chiamava – non era un disturbo ma un messaggio. Più di una volta si era voltato e l’aveva sorpresa sulla porta che lo guardava. Una Fräulein Gottestochter che recava doni di cui lei stessa alla fine dei conti non sarebbe stata avvocata».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 41 - Giugno 2023ChiudiLeggi la recensione
- Vivi veloce
Brigitte Giraud
Guanda, Milano, 2023Quando esce in italiano il libro che ha vinto l’ultima edizione del premio Goncourt (il più prestigioso premio letterario francese), è per me sempre una festa. ...
Quando esce in italiano il libro che ha vinto l’ultima edizione del premio Goncourt (il più prestigioso premio letterario francese), è per me sempre una festa. La ragione è semplice: sin dalla sua prima edizione, nel 1903, la qualità delle opere premiate ha pochi eguali al mondo. Anzi, vi consiglio caldamente di guardare, per trarre ispirazione per le prossime letture, il palmares qui e di leggere le recensioni già comparse in precedenza «Sullo scaffale», di alcuni dei titoli premiati (Dubois e Sarr).
L’ultima edizione, quella del 2022 (il premio viene consegnato nel mese di novembre), è stata vinta dal memoir Vivi veloce, della scrittrice Brigitte Giraud, nata in Algeria ma lionese d’adozione.
Il libro autobiografico racconta, a vent’anni di distanza dai fatti, la morte del marito di Giraud, l’allora quarantunenne Claude, giornalista musicale, disarcionato da una potente motocicletta Honda, il 22 giugno 1999.
Giraud, che con il marito, poco prima che questo morisse, aveva comprato una nuova casa dove si sarebbero trasferiti con il figlio, parte proprio dalla recente vendita di questo immobile, diventato ormai per lei una sorta di simbolo della sua relazione brutalmente distrutta dall’assurdo incidente, per raccontare la sua personalissima elaborazione del lutto. Così, praticamente ogni capitolo in cui è diviso il libro, è un «Se»: «Se Claude non avesse preso la moto di mio fratello», «Se non avessi visto quella casa»… che tenta di trovare le connessioni tra un evento – significativo o di poco conto – capace di aver determinato o meglio, essere stato la colpa, di quanto accaduto a Claude.
Devo confessare che questo tipo di approccio mi ha parecchio spiazzato. Non sono convinta che, almeno per me, possa funzionare una visione di questo tipo: «se non avessi fatto X o se Tizio o Caio non avessero fatto Y allora Z non sarebbe successo». Tuttavia, la lettura di Vivi veloce, libro che, al di là delle drammatiche vicende narrate, è indubbiamente scritto bene, con una prosa asciutta ed elegante, mi ha stimolato a riflettere su quanto quello che facciamo e quello che ci capita nel nostro quotidiano siano in grado di determinare, in maniera potentissima, ciò che potrebbe accaderci. Alla fine, resto però con questa domanda che rivolgo anche a voi: ha senso cercare a posteriori le ragioni di ciò che ci succede?Perché leggerlo? Perché questo libro può piacere oppure no (anche la critica si è molto divisa e, come avrete intuito, pure a me non ha del tutto convinto), ma gli va certamente riconosciuto il merito di toccare in maniera molto intima e senza eccessi di retorica il tema universale della perdita e della solitudine che ne deriva.
Una citazione dal libro: «Era forse l’eco lontana, conservata nel ricordo, della terrazza di Algeri dove andava in triciclo da bambino. Quel grande cielo, nel quale a volte risuonavano gli spari. Ma io preferivo stare in basso. Sulla terraferma. Ricordo quello slancio, che solo dopo mi è sembrato sospetto, quel desiderio sempre più ossessivo».
Federica Merlo
Newsletter 40 - Maggio 2023ChiudiLeggi la recensione
- V13
Emmanuel Carrère
Adelphi, Milano, 2023Emmanuel Carrère torna in libreria con V13, reportage narrativo che ha per argomento il processo per gli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015 (...
Emmanuel Carrère torna in libreria con V13, reportage narrativo che ha per argomento il processo per gli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015 (fuori dal e nel Teatro Bataclan e allo Stade de France). Il libro, a onor del vero, raccoglie e amplia contributi già comparsi a puntate su alcuni quotidiani europei (in Italia su Robinson de La Repubblica).
Carrère in V13 racconta in prima persona quanto è accaduto per molti mesi – tra il 2021 e il 2022 – nell’aula dell’Ile de la Cité, allestita appositamente per accogliere il gran numero di persone coinvolte in quello che possiamo definire, senza ombra di dubbio, uno dei processi più importanti della recente storia francese ed europea.
Per i Carrèriani (Carrère è forse uno dei pochi provenienti dal mondo letterario che può vantarsi di essere diventato negli anni una vera e propria star!), siamo di fronte a qualcosa di diverso rispetto a quanto lo scrittore parigino ci aveva abituato con le sue ultime pubblicazioni (Vite che non sono la mia o Yoga, solo per fare due esempi, quest’ultimo, tra l’altro, recensito in «Sullo Scaffale». In V13, infatti, Carrère si allontana da quella narrazione autofinzionale del sé che l’ha reso famoso, per dare voce agli altri: vittime, attentatori e legali presenti nelle varie udienze. Il risultato però, nonostante questo cambio di rotta è sempre eccellente, sia dal punto di vista narrativo – la sua prosa è straordinaria – sia dal punto di vista contenutistico, soprattutto per quanto riguarda la prima parte, nella quale i protagonisti sono i parenti delle vittime.Che dire di più… questo V13 è un libro davvero tosto (come d’altronde lo è stato anche La traversata di Philippe Lançon che parlava dell’attentato a Charlie Hebdo), che ci fa rivivere scene strazianti e indicibili sofferenze (quelle dei genitori e dei compagni delle vittime) e ci mette di fronte, senza filtri, al male di cui gli esseri umani sono capaci.
Perché leggerlo? Perché nonostante questo grande, enorme male, Carrère riesce a dimostrarci come si possa comunque trovare del bene. Molto bella è, a tal proposito, una frase di Simon Weil citata nel libro: «Il male immaginario è romantico, romanzesco, vario; il male reale incolore, desertico, noioso. Il bene immaginario è noioso; il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante»
Una citazione dal libro: «La mattina del 14 novembre 2015 all’obitorio due vittime sono state confuse. I genitori di una hanno creduto che la figlia fosse morta mentre era viva, quelli dell’altra hanno avuto la folle speranza che fosse viva mentre era morta. Chiamato al banco dei testimoni, il direttore dell’obitorio si giustifica: non si erano mai trovati a gestire una situazione del genere, l’arrivo in poche ore di “centoventitré corpi interi e diciassette brandelli di corpi”».
Federica Merlo
Newsletter 40 - Maggio 2023ChiudiLeggi la recensione
- Abbassa il cielo e scendi
Giorgio Boatti
Mondadori, Milano, 2022Giorgio Boatti è nato in un paese della Lomellina, al confine tra Lombardia e Piemonte, dove tutt’ora risiede e, prima di esordire con il romanzo autobiografico Abbassa il ...
Giorgio Boatti è nato in un paese della Lomellina, al confine tra Lombardia e Piemonte, dove tutt’ora risiede e, prima di esordire con il romanzo autobiografico Abbassa il cielo e scendi, ha pubblicato parecchi saggi di carattere storico contemporaneo che vi invito a scoprire qui.
Di Abbassa il cielo e scendi, la scrittrice e scout letteraria Cristina De Stefano, ha detto: «Per parlare della follia ci vuole un poeta. Per raccontare il tempo perduto ci vuole uno storico. Giorgio Boatti è tutte e due le cose e lo dimostra in questo straordinario romanzo dove tutto è vero». Mai strillo poteva essere più azzeccato e preciso nel descrivere la doppia natura di questo libro. Da una parte, infatti, Boatti racconta in prima persona il suo rapporto con il fratellone Bruno che, dall’età del servizio militare, inizia a manifestare i sintomi di una grave malattia mentale, la schizofrenia. Dall’altra, attingendo al suo bagaglio di giornalista e saggista, grande conoscitore del panorama socio-politico italiano del «Secolo Breve», lo scrittore inserisce questa sua vicenda personale in un contesto più ampio, che gli permette di parlare delle famiglie che faticavano ad arrivare a fine mese per far studiare i figli, che quando capitava una malattia la tenevano nascosta per pudore e vergogna e di tutti coloro che sono stati testimoni delle grandi rivoluzioni (la legge Basaglia, per citarne soltanto una, che nel 1978 sanciva la chiusura dei manicomi) e, purtroppo, pure del loro tradimento.
Se i grandi romanzi – ed è qui che l’arte esercita la sua funzione politica – ci fanno riflettere, in questo Abbassa il cielo e scendi, che grande romanzo lo è dalla prima riga ai ringraziamenti (a proposito, andateveli a leggere!), ci sono parole sul «prendersi cura» la cui intensità, alimentata dall’esperienza personale dell’autore, si trasmette in maniera così potente al lettore che, più di tanti testi scientifici, sono in grado di farci capire cosa sono le Medical Humanities.
Perché leggerlo? Perché, una volta letto il libro, avrete anche la possibilità di ascoltare l’autore. Giorgio Boatti è stato invitato il 6 aprile 2023 dalla Casa della Letteratura per la Svizzera Italiana a presentare a Lugano Abassa il cielo e scendi. Colgo l’occasione per ringraziare il presidente della Casa della Letteratura, il poeta Fabiano Alborghetti, per avermi dato l’opportunità di moderare quell’incontro e vi suggerisco caldamente di consultare il programma dei loro prossimi, interessantissimi, eventi.
Una citazione dal libro: «Ed è un peccato. Perché magari tra mezzo secolo oppure oltre ancora, quando sotto quel tetto non abiteranno più dolore sofferenza, questa vetrata infranta e insanguinata aiuterebbe a capire qualcosa della pazzia e del suo infrangersi sulla fragilità umana; a comprendere, in un baleno, quanto siano vicini alle vite di ognuno di noi i suoi margini, e taglienti, nei confronti delle nostre arroganti certezze, i suoi bordi».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 39 - Aprile 2023ChiudiLeggi la recensione
- Lapvona
Ottessa Moshfegh
Feltrinelli, Milano, 2023Attualmente, tolto alcune rare eccezioni, tra cui Carmen Maria Machado...
Attualmente, tolto alcune rare eccezioni, tra cui Carmen Maria Machado e Joshua Cohen, già recensiti in Sullo Scaffale. la letteratura «made in USA» non sta brillando per fantasia e sperimentazione. Tuttavia, c’è un’altra autrice, Ottessa Moshfegh (padre iraniano e madre croata, ma americanissima, natia di Boston) che negli ultimi anni è stata in grado, sin dal suo esordio Eileen (di cui a breve uscirà pure l’adattamento cinematografico) di giocare una partita sé.
Ma arriviamo al suo ultimo romanzo, dallo strano titolo Lapvona. Ebbene sì, anche questa volta Moshfegh ce l’ha fatta a far dire ai suoi lettori «ma cosa diavolo?!». Questo libro, infatti, appena uscito per Feltrinelli (traduzione di Silvia Roti Sperti), è l’ennesima dimostrazione che, se si ha voglia di rischiare e il talento per farlo, si può, ancora oggi, proporre qualcosa di diverso dal resto dei romanzi (troppi e tutti simili!) che si trovano sugli scaffali «novità» delle librerie.
Ma di cosa stiamo parlando? Allora, Lapvona è, formalmente, un romanzo storico ambientato nel medioevo. Però, come ci ha già abituato nelle precedenti opere, la scrittrice americana anche qui destruttura il genere, liberandolo da riferimenti di luogo (Lapvona, che è il nome del paese immaginario dove è ambienta la vicenda, non viene mai detto in quale parte del mondo si trova) e tempo (non ci sono anni, date… ma solo cinque stagioni, da primavera a primavera) ma lasciando alcune convenzioni tipiche tra cui i simbolismi biblici, i signorotti ricchi che sfruttano e maltrattano i sudditi, le streghe e un certo gusto per il grottesco che in alcuni casi arriva persino a tingersi di tinte orrorifiche.
Alcuni lettori potrebbero trovare in Lapvona una certa critica alla società contemporanea e persino alcuni spunti per innescare un dibattito sia etico che religioso, altri (e io forse sto con questi ultimi, considerando che, anche ascoltando alcune belle interviste che si trovano on line, l’autrice non dichiara mai in maniera esplicita queste intenzioni) si godranno semplicemente una bella fiaba sui generis, con scene che paiono uscite direttamente dai quadri di Hieronimus Bosch o da certi film di Dario Argento e alcuni plot twist che danno parecchio gusto alla trama… entrambi, però, a libro terminato, rimarranno un po’ stupiti, un po’ disorientati, ma sicuramente consapevoli e felici di essersi letti qualcosa di particolare e dall’alto contenuto artistico. In fondo, non dimentichiamolo, la letteratura dovrebbe essere, prima di tutto, questa roba qui.Perché leggerlo?
Per scoprire una delle scrittrici più interessanti dell’attuale panorama letterario internazionale. Ah, vi consiglio caldamente di non farvi scappare anche il suo più celebre Il mio anno di riposo e oblio, (sempre edito da Feltrinelli e ora anche in edizione economica)Una citazione dal libro:
«Quando chiedeva consiglio agli uccelli, quelli rispondevano che non sapevano nulla dell’amore, che l’amore era un difetto propriamente umano che Dio aveva creato per controbilanciare il potere della avidità degli uomini».Federica Merlo
Newsletter 39 - Aprile 2023ChiudiLeggi la recensione