Perché guardarlo? Il film spazia su circa trent'anni di storia degli Stati Uniti d'America: Forrest, seduto su una panchina, comincia a raccontare la propria vita, sin da quando era un bambino. Raccontando le proprie vicende Forrest incontrerà tre presidenti, icone come Elvis e John Lennon, stabilirà un nuovo clima di pace tra Stati Uniti d'America e Cina attraverso il ping pong, parteciperà alla guerra del Vietnam e a un raduno hippy, senza tuttavia rendersi realmente conto di quanto tutto questo fosse straordinario. Il fil rouge che si nasconde nella trama è il rapporto speciale con Jenny, che conosce sin dall’infanzia.
Proprio il rapporto con Jenny è l’elemento su cui si basa il film. Un rapporto nato tra i banchi di scuola e che in varie fasi della vita di Forrest ricompare in varie forme. Tra i due c’è un rapporto di cura che va al di là di ogni evento storico, di ogni moda, di ogni tempo. Se prima Jenny difenderà il piccolo Forrest dai bulli, lo sosterrà nelle sue imprese seguendolo silenziosamente, cosi Forrest saprà strappare Jenny dalle cattive compagnie e abitudini. Un rapporto cosi avaro di tempo, ma di cui entrambi si prendono cura per una vita intera. Alla fine sarà Forrest a prendersi letteralmente cura di Jenny, malata terminale, ma il loro rapporto continuerà a vivere nel piccolo Forrest, figlio di quel tempo avaro, ma anche di quella cura che entrambi hanno saputo dare al loro rapporto.
La cura dei rapporti, come il rapporto di cura, necessita di qualità e non di quantità. La qualità della cura porta ogni momento vissuto a essere un momento di vita.
Recensioni
«Forrest gump, il maggiore successo della stagione negli Stati Uniti, vicenda di un uomo dall'intelligenza tanto limitata da diventare stupidità che percorre di gran corsa trent'anni di Storia americana conquistandosi vittorie, celebrità, ricchezza e amore, è come le macchie del test proiettivo di Rorschach: ognuno ci vede quello che vuole vedere, o quel che é. Allegoria americana, il film tratto da un romanzo scritto nel 1986 dal giornalista Winston Groom ha infatti già suscitato giudizi contraddittori e interpretazioni senza fine: è divertente, è tragico; è una critica radicale a società e istituzioni che consentono la prevalenza del cretino; esalta, in un'epoca di cinismo dominante, l'inalterabile capacità di sperare; rispecchia un presente nel quale intelligenza e spirito critico sono meno apprezzati della fiducia in se stessi e della buona coscienza sociale; loda la bontà generosa, l'energia fattiva, la fedeltà leale alle promesse; irride ogni idealismo degli Anni Sessanta; è oltraggiosamente conservatore, è sottilmente progressista. [...]».
(Lietta Tornabuoni, La Stampa, 21 Ottobre 1994 )
«Forrest Gump o test di Rorschach? Il film di Robert Zemeckis che ha conquistato Venezia, e che prima ancora di uscire in Italia aveva già conquistato gli Stati Uniti con incassi stratosferici raramente raggiunti da un film “per adulti”, rappresenta un caso singolare di film-cartina di tornasole, di film-test, di film-crinale. Insomma, dopo tanti film-giocattolo, tanti film-otto volante, tanti film-confezione regalo, finalmente un film che, al di là del divertimento e delle emozioni, suscita il piacere e la necessità di discutere e interpretare. E non c’è dubbio che, se si usasse ancora l’aborrito “segue dibattito”, se ne sentirebbero delle belle. Magari anche che il bravissimo Tom Hanks, come ha scritto qualcuno, è troppo bravo e punta all’Oscar.
Come si è capito dalla critica italiana a Venezia 1994 e come si può leggere nelle recensioni americane e inglesi, Forrest Gump si offre a due letture completamente diverse: e per questo si parlava di film-test. Forrest Gump, che incontriamo mentre aspetta un autobus e racconta ai suoi vicini di panchina la sua avventurosa esistenza “all amencan”, è un povero di spirito, un idiota quasi dostoevskijano nella sua gentilezza d’animo, una piuma al vento della storia (ed è molto bella e magica la sequenza iniziale, metà in diretta, metà al Computer Graphics, di una piuma, appunto, che svolazza sui titoli di testa fino ad approdare ai piedi di Forrest in attesa). È un uomo qualunque che ha sconfitto il suo handicap (il piccolo Forrest non poteva camminare normalmente), che attraversa la vita letteralmente di corsa, conquista la laurea a forza di vittorie sportive, sopravvive al Vietnam, si comporta da eroe per caso, diventa miliardario, si pente, percorre il suo paese da costa a costa, incontra i grandi dei suoi anni, ama incoercibilmente il primo amore, sempre restando un adorabile idiota, sempre fedele ai motti che gli insegnava la sua mamma nella vecchia casa dell’Alabama.
Inutile dire che una vecchia volpe dello spettacolo come Robert Zemeckis, al suo primo incontro con un film che ambisce a essere un pezzo di storia americana, ci mette dentro tutto quello che il suo curriculum gli ha insegnato: la leggerezza e il senso della storia di Ritorno al futuro, la maestria degli effetti e dei contrasti di Roger Rabbit, i trucchi e la critica crudele di La morte ti fa bella. Ma rimescolati in un blend fluido e godibilissimo, ironico e tenero, affettuoso e crudele che ci accompagna (con una colonna sonora così bella ed evocativa da essere quasi ruffiana) attraverso quarant’anni di storia, dalle prime battaglie universitarie antisegregazioniste, attraverso il Vietnam, Kennedy, Johnson, Mao, Nixon, il Watergate, le Pantere nere, la musica pop, gli spinelli, le grandi mance pacifiste, sino ai primi anni ottanta.
Di ogni momento Forrest Gump - l’Everyman che sa sempre adattarsi all’esistente, lo Zelig della Storia, il Simplicissimus che attraversa la vita con il solo patrimonio della sua gentile stupidità - è, in un modo o nell’altro, il coprotagonista. Laureato a forza di gambe, eroe per la stessa ragione, campione di ping-pong per idiotico talento e di conseguenza ambasciatore dello sport americano in Cina, industriale della pesca per fiducia nell’amicizia, guru senza volerlo perché nel suo correre tra l’Atlantico e il Pacifico la massa degli altri idioti vede un messaggio che non c’è, Forrest Gump appare (grazie agli effetti speciali) accanto a Kennedy, mostra il sedere ferito in battaglia a Johnson (che si diverte un mondo), suggerisce a Lennon le parole di Imagine (così come aveva suggerito a Presley, ai tempi pensionante sconosciuto di sua madre, il celebre “pelvis movement”: ed è vero che una gag non molto diversa si vedeva in Ritorno al futuro, ma ci si diverte lo stesso); e farebbe dichiarazioni imbarazzanti sul Vietnam a un raduno davanti alla Casa Bianca se un “falco” non provvedesse a staccare i microfoni. Per tutta la vita, infine, Forrest ama la stessa donna (Robin Wright), che incarna invece l’America problematica, inquieta, eternamente alla ricerca di qualcosa - musica, sesso, oblio, giustizia sociale, illusione politica - forse impossibile da trovare. E il personaggio di Jenny uno dei principali capi d’accusa contro Forrest Gump (il film), e il suo destino sfortunato (poiché passa di illusione in illusione, di errore in errore, di moda culturale in moda culturale, finendo per morire, un po’ anticipatamente, di una malattia che si direbbe Aids), è la principale prova a carico che dovrebbe dimostrare come Zemeckis porti avanti un discorso sostanzialmente reazionario.
L’innocente di un’America alla Norman Rockwell batte ai punti le inquietudini dell’America inquieta? Sì. Ma non perché Zemeckis sposi questa convinzione. Sarebbe come sostenere che Edgar Lee Masters auspicava per gli abitanti di Spoon River i loro drammatici destini. Al contrario: facendo di Forrest un eroe della categoria tutta anglosassone della “serendipity” (secondo il Webster “l’attitudine a fare scoperte fortunate per caso”), Zemeckis sottolinea con dolorosa ironia quanto sia più facile e spesso remunerativo adattarsi, seguire la corrente, restare profondamente conformisti, farsi poche domande. E, dall’altra parte, quali prezzi abbia pagato una generazione all’utopia, alle speranze politiche, al desiderio di cambiamento. Andate e decidete. Il dibattito è aperto. Ma qualcosa resta indiscutibile: il tono sempre leggero, sempre divertente, spesso toccante di un film originale e bizzarro, che ci accompagna con grazia, intelligenza, commozione, attraverso i nostri ieri».
(Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996)
Martina Malacrida Nembrini