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Sullo scaffale

Libri

Consigli di lettura, spunti di riflessione, recensioni di libri raccolti nel Centro di documentazione della Fondazione Sasso Corbaro.

Recensioni 

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    Ti amo

    Hanne Ørstavik
    Ponte alle Grazie, Milano, 2021.

    Hanne Ørstavik è una scrittrice e intellettuale tra le più importanti del panorama norvegese ed europeo. Ha pubblicato una quindicina di romanzi, tra cui Amore, finalista nel 2018 al prestigioso ...

    Hanne Ørstavik è una scrittrice e intellettuale tra le più importanti del panorama norvegese ed europeo. Ha pubblicato una quindicina di romanzi, tra cui Amore, finalista nel 2018 al prestigioso National Book Award.
    Ti amo, suo ultimo libro, racconta una dolorosa vicenda personale: poco dopo il suo trasferimento in Italia, Ørstavik scopre che il marito, l’editore italiano Luigi Spagnol, è affetto da un tumore al pancreas, che lo condurrà alla morte nel 2020.
    La scelta della scrittrice, trovatasi di fronte alla tremenda realtà dei fatti è stata quella di – citando quanto afferma lo scrittore Missiroli in un articolo apparso su La Lettura del 21 novembre 2021 – avere il «fegato di non aspettare il deposito dell’esistenza» (come invece fece, per esempio, Joan Didion che scrisse il suo L’anno del pensiero magico a due anni di distanza dalla perdita del marito) e di narrarci non il lutto ma il lento e progressivo percorso che al lutto l’ha condotta. Da questa operazione ne esce un testo potentissimo e sincero, nel quale, sebbene la malattia e la morte siano costantemente presenti, si «fights for life», combatte per la vita (parole pronunciate dall’autrice stessa in occasione della presentazione della traduzione del libro in lingua tedesca).
    Ma Ti amo, oltre ad essere un’importante testimonianza dello sconvolgimento che la malattia, propria o di una persona a noi cara, è in grado di portare nelle nostre vite e nei rapporti umani (altro tema chiave della produzione della scrittrice norvegese, quello dei rapporti interpersonali) è anche un testo fortemente letterario, che si interroga sul senso della scrittura stessa e nel quale la qualità della prosa, minimale, tagliente, cruda – in questo simile a quella di altri grandi narratori del nordeuropa – è davvero elevata.

    Perché leggerlo? Perché chiunque abbia a cuore gli argomenti di cui tratta sarà in grado, ne son certo, di «portarsi a casa» qualcosa da questo piccolo (87 pagine) ma grandissimo memoir.

    Una citazione dal libro: «Ti amo. Ce lo diciamo tutto il tempo. Ce lo diciamo, invece di dire altro. Cosa sarebbe questo altro? Tu: Sto per morire. Noi: Non lasciarmi. Io: Non so cosa fare. Prima: Non so cosa fare senza di te. Quando tu non ci sarai più. Ora: Non so cosa fare di tutti questi giorni, di questo tempo, in cui la morte è la cosa più visibile che c’è. Ti amo».

    Recensione di Nicolò S. Centemero
    Newsletter 23 - Dicembre 2021

    L’autrice parlerà di Ti amo con Nicolò S. Centemero sui canali Zoom e Facebook della Fondazione Sasso Corbaro il 15.12 alle ore 20.30.

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    Un uomo sottile

    Pierpaolo Vettori
    Neri Pozza, Vicenza, 2021.

    Pierpaolo Vettori, in passato finalista per due edizioni al Premio Calvino e con già alcuni romanzi alle spalle, si è laureato in lingue e letterature straniere con una tesi sulla Swinging ...

    Pierpaolo Vettori, in passato finalista per due edizioni al Premio Calvino e con già alcuni romanzi alle spalle, si è laureato in lingue e letterature straniere con una tesi sulla Swinging London ma di professione fa il fabbro e per diversi anni si è occupato di musica. Da poco ha pubblicato il suo ultimo libro, Un uomo sottile, fresco vincitore della V edizione del premio Neri Pozza.
    Un uomo sottile è un romanzo particolare, composto da brevi unità narrative, dove il protagonista, fabbro e scrittore come l’autore, racconta due universi che corrono paralleli nella sua vita. Il primo è quello letterario, nel quale meta-narrativamente, viene raccontata la stesura di questo stesso libro e dove lo scrittore va alla ricerca di un uomo che non ha mai visto e che da anni è chiuso in un istituto di Venezia, colpito da una grave malattia degenerativa cerebrale. Quest’uomo, sin da subito, nonostante per tutto il testo venga chiamato con l’acronimo DDG, sappiamo essere lo scrittore Daniele Del Giudice. Il secondo universo è quello della sfera privata del narratore alle prese con la malattia della moglie Laura, la quale si ammala anch’essa di una patologia cerebrale simile a quella di DDG e che le causerà la perdita della memoria e dell’autonomia.
    Stilisticamente il romanzo è scritto con una prosa consapevole e misurata nella quale prevale l’uso dell’indicativo presente.
    Ho trovato molto interessante una presentazione che si può recuperare on-line, dove Vettori, intervistato dal collega Tarabbia, ci suggerisce un ulteriore piano di lettura del suo Un uomo sottile, che va oltre la linearità delle vicende narrate. Lo scrittore afferma infatti che i frammenti da cui il libro è composto sono delle entità autonome e autoconclusive – paradossalmente leggibili anche in ordine sparso. Tutte queste unità narrative sono dedicate al nulla, allo svanire. Da ciò capiamo come sia ancora più forte il tributo e il legame a Daniele Del Giudice e alla sua progressiva sparizione dal mondo letterario e dai suoi lettori per colpa della malattia.

    Perché leggerlo? Perché putroppo il 2 settembre di quest’anno, dalla casa anziani in cui ormai viveva da anni, è arrivata la triste notizia della morte di Del Giudice. Credo quindi che la lettura di Un uomo sottile sia uno dei modi migliori per andarsi a recuperare anche tutte le pubblicazioni – e non sono molte – di questo grande e ingiustamente un po’ dimenticato scrittore italiano.

    Una citazione dal libro: «Raggiungere la verità non significa procedere da A verso B, come se fosse una linea retta. Immagini piuttosto una spirale: il punto di partenza è il centro e, man mano che ci si avvicina alla verità, il cerchio si allarga, si comprende sempre di più. In altre parole, la verità non è un punto d’arrivo ma un processo di espansione della conoscenza».

    Recensione di Federica Merlo
    Newsletter #23 - Dicembre 2021

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    Un paziente

    Ben Watt
    Carbonio, Milano, 2017

    Passeggiando tra gli stand del Salone del Libro di Torino (14-18 ottobre 2021) che finalmente, dopo l’edizione on-line dell’anno pandemico, è tornato in presenza, mi sono fermato a quello della ...

    Passeggiando tra gli stand del Salone del Libro di Torino (14-18 ottobre 2021) che finalmente, dopo l’edizione on-line dell’anno pandemico, è tornato in presenza, mi sono fermato a quello della piccola casa editrice Carbonio, della quale abbiamo già recensito qualche mese fa La Tuffatrice di Julia Von Lucadou. Spulciando tra un romanzo e l’altro, attirato dalle loro bellissime copertine, ho fatto amicizia con la press editor Costanza. La bellezza di questo tipo di manifestazioni legate all’universo letterario è quello di poter incontrare tanti addetti ai lavori – non solo scrittori! – con i quali scambiare quattro chiacchiere sui propri interessi in termini di letture in un clima rilassato – perché è vero che c’è sempre una gran folla, ma quella del Salone è tranquilla, benevola.
    Costanza, alla quale ho parlato anche della Fondazione Sasso Corbaro, in segno di gratitudine per aver recensito il romanzo della Von Lucadou, mi ha regalato una copia di Un paziente di Ben Watt, perché «questo tu lo devi leggere!».
    Ammetto che del libro non ne sapevo nulla, ma scopro presto che si tratta del memoir, scritto da uno dei due membri – l’altra è la moglie di Watt, Tracey Thorn – del gruppo di musica alternativa anni ’90 Everything but the girl, il cui pezzo «Missing» ebbe in quegli anni un successo planetario.
    Pur essendo parecchio scettico nei confronti di questi racconti, scritti dalla star di turno, soprattutto quando parlano di tematiche legate alla malattia, in questo caso mi sono voluto fidare di Carbonio e ho fatto benissimo. Un paziente è stata davvero una gran bella lettura.
    Ma di cosa parla nello specifico? Allora, Ben Watt, dal 27 giugno all’1 settembre del 1992 è stato ricoverato al Westminster Hospital di Londra per una rara vasculite autoimmune, dal nome quasi impronunciabile, di Granulomatosi Eosinofila con Poliangioite – in precedenza anche nota come sindrome di Churg-Strauss. Nelle settimane di ricovero, Watt ha subito sei interventi chirurgici di resezione intestinale per rimuovere parti dell’organo definitivamente compromesse dalla malattia, rischiando più volte la vita. Dopo questo lungo calvario e dopo essersi riuscito a riprendere così bene da poter continuare la sua brillante carriera di musicista – «Missing» uscì nel 1994! – nel 1996 ha pubblicato Un paziente. Detto ciò, apparentemente, il libro non dovrebbe avere nulla di tanto diverso da molte altre narrazioni della malattia di questo genere. E invece diverso lo è, e lo si capisce sin da subito. Infatti, a parte lo stile di scrittura, molto schietto ma curatissimo, due sono state le scelte che elevano questo testo a vera e propria opera letteraria. La prima è il modo in cui l’autore narra quanto accadutogli. In tutto il libro si alternano al racconto in prima persona delle vicende, molte parti, in corsivo, dove Watt riporta i suoi pensieri o ci parla dei suoi sogni e dei deliri causati dai medicamenti che gli venivano somministrati. Queste parti si integrano perfettamente nella narrazione e ci proiettano nella mente del paziente, aumentando di molto l’effetto d’immedesimazione del lettore. La seconda scelta che Watt compie è quella di andare oltre al racconto di quanto ha patito e di coinvolgere, anche con interessanti digressioni sul suo passato (es. la partita di calcio della domenica col padre, la vita sempre in attesa dello squillare del telefono della madre giornalista, il periodo all’università di Hull con la moglie Tracey), altri personaggi che in qualche modo subiscono a loro volta il turbamento dell’ordine imposto dalla malattia, ma anche da tutti quegli episodi, a volte imbarazzanti, a volte ridicoli, a volte, invece, molto profondi (es. il rapporto con alcuni medici e infermieri) che a Watt accadono durante la sua lunga degenza ospedaliera. Una nota finale – ed è un aspetto che ha contribuito a farmi amare ancora di più questo libro – la rivolgo alla capacità dello scrittore di rifuggire da una facile retorica legata alla malattia e alla condizione di malato in cui troppo spesso, ultimamente, capita di imbattermi. Ben Watt, come a mio avviso la letteratura dovrebbe sempre fare, non ci dà i soliti consigli di chi ci è passato e non prova a consolarci, ma, con il potere della grande scrittura, che non trascura mai la ricerca dello stile e della forma, ci porta nel suo universo di sofferenza e ci lascia lì. A noi tocca riflettere, a noi tocca pensare al significato che diamo alla nostra salute, al suo venir meno e a tutto quello che questo comporta anche per chi ci sta vicino.

    Perché leggerlo? Buoni motivi per la lettura di Un paziente ne ho già dati parecchi… ma mi permetto di aggiungere che questo libro deve anche essere letto per scoprire – e chi lo conoscesse già, riscoprire – l’universo musicale degli Everything but girl, «and-I-miss-youuuu, like the deserts miss the raiiiinnnn, lalalalaaa la»

    Una citazione dal libro: «E in queste ore, spesso passate in compagnia di Tracey che leggeva in silenzio, non provavo rabbia o risentimento, né un crescente senso di ribellione verso quella che sembrava una tale ingiustizia, una vita che non aveva nulla della vita, per il motivo che la domanda «Perché proprio io?» può portare solo alla successiva domanda «Perché chiunque?» e il mondo interiore in cui avevo iniziato ad abitare non era un luogo dominato dalla paura, dalla tensione e dall’acrimonia, ma un posto invece dove il riconoscimento della mia fragilità e della mia mortalità mi davano una sorta di nuova forza».

    Nicolò S. Centemero

    Novembre 2021

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    Nova

    Fabio Bacà
    Adelphi, Milano, 2021

    Ultimo talento scoperto del compianto Roberto Calasso, Fabio Bacà ha esordito con Adelphi – sì avete letto bene! – nel 2019 con il bellissimo Benevolenza Cosmica.
    A distanza di due anni, ...

    Ultimo talento scoperto del compianto Roberto Calasso, Fabio Bacà ha esordito con Adelphi – sì avete letto bene! – nel 2019 con il bellissimo Benevolenza Cosmica.
    A distanza di due anni, sempre con la stessa prestigiosa casa editrice, esce ora (ottobre 2021) il suo nuovo romanzo, Nova. Come è stato il mese scorso per Andrea Donaera (cfr. recensione di Lei che non tocca mai terra), anche Bacà, di fronte alla difficile impresa del «secondo» che, citando una famosa canzone del rapper Caparezza è «sempre il più difficile, nella carriera di un artista», non solo si riconferma, ma «cresce e colpisce» (Alessandro Beretta, La Lettura, 17.10.2021).
    Nova è un romanzo che potremmo definire borghese, nel quale si narrano le vicende della famiglia Ricci, composta dal padre Davide, un neurochirurgo di Lucca, dalla moglie Barbara, logopedista e dal loro unico figlio, l’adolescente Tommaso. I tre affrontano episodi abbastanza comuni e banali come le continue liti con lo scapestrato vicino Massimo Lenci per il rumore causato dal suo locale notturno, le avances subite da Barbara in un ristorante che vanno a finire male per lo spasimante e le competizioni sul lavoro – Davide ha un primario piuttosto sui generis. Tuttavia, l’apparente quasi-normalità iniziale viene meno nel corso delle pagine e la tensione aumenta fino ad arrivare ad un finale d’impatto, disturbante e che ha un forte legame, quasi a voler chiudere un cerchio, con il particolare prologo con il quale si apre il libro.
    Se in Benevolenza cosmica il tema affrontato era quello della fortuna, in questo Nova, Bacà – che scrive un romanzo decisamente diverso dal primo – affronta i temi della violenza e del «Potere» (con la P maiuscola, come scritto nel libro). Per fare questo, in maniera molto intelligente, parte dal particolare della vita dei Ricci per arrivare all’universale delle vite di tutti noi – operazione che gli riesce alla perfezione – e lo fa utilizzando la sua meravigliosa prosa, che, ormai al secondo romanzo, è diventata uno dei tratti distintivi dell’autore. In Bacà ogni pagina dà l’idea di essere un lungo lavoro di cesello, ma, a differenza di quanto succede per molti altri scrittori, questo impegno nei confronti della ricerca linguistica, dei termini «giusti» non solo a livello scientifico ma anche sonoro, non va affatto a discapito della scorrevolezza e anzi è, a mio avviso, la principale ragione della grandezza di questo Nova.

    Perché leggerlo? Perché lo so che è difficile da credere, ma in un romanzo drammatico, Bacà è stato capace di metterci di fronte a interrogativi su grandi dilemmi etici legati ai nostri istinti più inconsci utilizzando in parecchi momenti un’ironia rara e sempre misurata. Si inizia, si fatica a mollarlo, ci si diverte e ci si interroga… what else?!

    Una citazione dal libro: «Lo Zen non serve a fare di te un filantropo con un perenne sorriso da idiota. Lo Zen è una smagliatura sulla calza che offusca la telecamera puntata per ventiquattr’ore al giorno sulla tua realtà. E a un certo punto non puoi più levare gli occhi da quel piccolo strappo, perché da lì hai la terribile, inebriante sensazione di scorgere il riflesso di ogni ruga sulla tua vecchia, stanca faccia da viandante millenario: il che, da quell’istante, ridurrà comprensibilmente il tuo interesse per te stesso allo specchio. E questo è un bene, perché allora potresti volgere lo sguardo altrove: e se lo farai davvero, se riuscirai a distogliere l’attenzione per il tempo sufficiente a capire che c’è altro all’infuori del tuo volto, del tuo corpo, della tua personalità, del tuo lavoro, dei tuoi amici e dell’insignificante porzione di tempo che il caso ti ha concesso, un giorno potresti ritrovarti a fissare qualcosa di meglio. Qualcosa che accoglierai con uno smagliante, incredulo – e da quel momento perenne – sorriso da idiota. Qualcosa di simile al grottesco, zoppo, ululante e scorticato sembiante del tuo autentico te stesso».

    Federica Merlo

    Novembre 2021

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    I beati anni del castigo

    Fleur Jaeggy
    Adelphi, Milano, 1989

    Partiamo «da lontano» e con un po’ di tristezza nel cuore per questa recensione. Un necrologio comparso sul Corriere della Sera del 30 luglio 2021 recita: Fleur Calasso Jaeggy ...

    Partiamo «da lontano» e con un po’ di tristezza nel cuore per questa recensione. Un necrologio comparso sul Corriere della Sera del 30 luglio 2021 recita: Fleur Calasso Jaeggy ricorda con profondo dolore Roberto Calasso amore di una vita. Kisses. F.

    Sono state la recente scomparsa dello scrittore Roberto Calasso, fondatore e direttore per oltre quarant’anni della più prestigiosa casa editrice italiana, Adelphi, e la lettura del dolcissimo necrologio sopra riportato che mi hanno dato l’occasione di recuperare gli scritti della moglie di Calasso, la zurighese Fleur Jaeggy.
    Proprio con Adelphi, Jeaggy, che scrive in italiano, ha pubblicato nel 1989 un breve romanzo, semi-autobiografico, dal titolo I beati anni del castigo.
    La storia è ambientata negli anni Cinquanta, in un collegio svizzero dell’Appenzello, nel quale la vita della ragazzina protagonista e quella delle altre allieve viene vissuta come una severa bucolica reclusione. Un posto, questo collegio di ricche figlie della borghesia novecentesca europea, dove, dice l’io narrante «la letteratura da sola non mi distraeva» e in grado di creare legami e conflitti forti con le compagne e le educatrici. Proprio un’amicizia o meglio una amitié amoreuse, come la definisce Jaeggy, con la compagna Frédérique è al centro del libro, che ho letto in una sola seduta di 2-3 orette senza riuscire proprio a staccarmici. Jeaggy, la cui prosa viene spesso definita austera e impenetrabile, è una maestra di quel «non detto» che lascia il lettore in una sorta di distaccato spaesamento. Una cosa interessante, per provare a mettere in parole quello che ho percepito durante la lettura de I beati anni del castigo, la dice un’altra scrittrice, Sheila Heti, sul New Yorker, in un articolo pubblicato nel 2017 (Jaeggy da tempo è tradotta e molto letta anche oltre oceano): «È come l’uomo suicida che pianifica il suo colpo di pistola allo scoccare dell’ora. La maggior parte degli autori vuole che si senta lo sparo; Jaeggy lo nasconde con le campane della chiesa».

    Perché leggerlo? Perché, nonostante un prosa glaciale, quasi clinica, e nonostante la difficoltà, impostaci dalla Jeaggy, di empatizzare con i personaggi, questo è uno dei libri che più «mi è rimasto dentro» degli ultimi anni. Un vero capolavoro, di cui, purtroppo, sento parlare troppo poco.

    Una citazione dal libro: «Ma perseveravo nel piacere dell’andare in fondo alla tristezza, come a un dispetto. Il piacere del disappunto. Non mi era nuovo. Lo apprezzavo da quando avevo otto anni, interna nel primo collegio, religioso. E forse furono gli anni più belli, pensavo. Gli anni del castigo. Vi è come un’esaltazione, leggera ma costante, negli anni del castigo, nei beati anni del castigo».

    Recensione di Federica Merlo

    Ottobre 2021

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    Lei che non tocca mai terra

    Andrea Donaera
    NN Editore, Milano, 2021

    A due anni dall’esordio con il romanzo Io sono la bestia, Andrea Donaera, giovane e talentuoso poeta e scrittore di origini pugliesi, ora trapiantato a Bologna, esce, ...

    A due anni dall’esordio con il romanzo Io sono la bestia, Andrea Donaera, giovane e talentuoso poeta e scrittore di origini pugliesi, ora trapiantato a Bologna, esce, sempre per i tipi di NN con Lei che non tocca mai terra. Come fu per il precedente, anche in questo secondo libro le ambientazioni sono quelle dei paesini della campagna salentina, luoghi vicini geograficamente ma lontani anni luce dal turismo chiassoso di famose località come Gallipoli e Otranto. Infatti Donaera, che non nasconde la passione per la musica gothic metal (diverse sono le citazioni musicali e il titolo stesso è un verso della canzone Capricorn at her feet del gruppo Moonspell, She/ Who never touches ground) continua anche in questo libro una ricerca, già iniziata con Io sono la bestia, che lo porta, sia per temi che per atmosfere che per lessico (interessante l’uso in alcuni capitoli del dialetto o l’assenza di congiuntivi), a scrivere quello che potremmo definire un «gotico pugliese». Al centro delle vicende ci sono Miriam, diciannovenne in stato vegetativo dopo un incidente, il suo «morosino» Andrea e lo zio di lei, papa Nanni, una sorta di santone che pratica esorcismi in un santuario della zona. Attorno a questi tre personaggi, tuttavia, in quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo corale e di voci, c’è anche spazio per altre figure: la mamma e il papà di Miriam e la sua amica Gabry. Volendo, come sempre, rinunciare a riferimenti di trama che rovinerebbero il gusto della lettura, mi sento di suggerire caldamente questo romanzo a chi pensa che la letteratura italiana e soprattutto i giovani scrittori non abbiano niente da dire. Lei che non tocca mai terra dimostra proprio l’esatto contrario e adempie perfettamente al ruolo che i romanzi devono avere: dare pugni nello stomaco, sbatterci in faccia, senza retorica e omissioni, la dura realtà, e soprattutto, lasciarci, a libro concluso, pieni di domande.

    Perché leggerlo? Perché su La lettura del Corriere della sera (19 settembre 2021), Ermanno Paccagnini fa notare – e ammetto che mi era sfuggito! – che questo è anche un romanzo di «occhi», «occhi vuoti, mangiati da tutte le robe dolorose che c’ha nella testa», «occhi grandi grandi», «bellissimi e devastati», «buoni», «occhi aperti strani, come se sono gli occhi di ’n’altra», «spenti», «animali e rossi», «fieri e incattiviti», «occhi suoi nerissimi» etc. … un romanzo di «occhi»… stupendo, non credete?

    Una citazione dal libro: «Le tragedie forse servono a questo. Se Dio esiste ce le manda per questo, le tragedie: per capire dov’è che vogliamo stare. E con chi. No?».

    Recensione di Federica Merlo

    Ottobre 2021

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    Chiaroscuro

    Raven Leilani
    Feltrinelli, Milano, 2021

    Luster, titolo originale (il riferimento è a un prodotto per capelli) di questo romanzo, è stato indubbiamente uno dei più grandi successi editoriali dell’anno passato negli Stati Uniti. Tra ...

    Luster, titolo originale (il riferimento è a un prodotto per capelli) di questo romanzo, è stato indubbiamente uno dei più grandi successi editoriali dell’anno passato negli Stati Uniti. Tra l’altro, l’ex presidente Obama l’ha messo nella sua classifica dei libri migliori letti nel 2020.
    La cosa che personalmente mi ha stupito in Chiaroscuro (titolo con il quale è stato portato sul mercato editoriale italiano da Feltrinelli a inizio 2021) è stata quella che il The Guardian, nella sua recensione, ha definito una «crystallin prose». È infatti dal punto di vista della scrittura che il romanzo della Leilani, se consideriamo anche il fatto che si tratta di un esordio, stupisce maggiormente. Il libro racconta le vicende di Edie (narrate al presente e in prima persona), una editor ventitreenne che inizia una relazione con un uomo sposato, Eric, conosciuto su un sito di incontri e con il doppio degli anni di lei. Non volendo anticipare alcunché per non rubare al lettore il gusto della scoperta, aggiungo solo che nel corso della storia compariranno anche la moglie di Eric e la loro figlia adottiva Akila, un’adolescente di origini afroamericane (come Edie!) e che la pittura avrà un ruolo importante.
    Da molta stampa è stato definito il romanzo del Me Too, perché la tematica razziale, affrontata dalla prospettiva di una ragazza newyorkese di colore, poco abbiente e dal passato familiare difficile è, in effetti, preponderante. Tuttavia, a mio parere, risulta piuttosto miope identificare Chiaroscuro solo in questa maniera. Infatti, ci troviamo di fronte a un testo dalle molte sfaccettature e contraddizioni e così ricco di tanti aspetti che riguardano, in particolare, i giovani che si affacciano al mondo del lavoro, le loro inquietudini, i loro desideri e le loro idiosincrasie, che identificarlo soltanto in questo modo sarebbe veramente riduttivo.

    Perché leggerlo? Perché prova a spiegarci l’oggi e soprattutto le sue storture con uno stile, un ritmo, un piglio, una verve, un sarcasmo, una perfezione nell’utilizzo della lingua che… non vedo già l’ora di avere tra le mani il prossimo romanzo della Leilani.

    Una citazione dal libro: «Ho detto addio tante di quelle volte, ormai, da sapere che la partenza ha un modo tutto suo di spandere una luce dorata su quelle che sono, nel migliore dei casi, lente morti quotidiane, eppure ogni volta penso ancora a tutto quello che sto per perdere».

    Recensione di Federica Merlo

    Settembre 2021

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    Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena

    Michelle Steinbeck
    Tunué, Latina, 2019

    Michelle Steinbeck, classe 1990, è una poetessa e scrittrice Svizzera, nata a Lenzburg. Ha studiato scrittura scenica a Berlino e scrittura letteraria a Bienne (nello stesso istituto che abbiamo menzionato il mese ...

    Michelle Steinbeck, classe 1990, è una poetessa e scrittrice Svizzera, nata a Lenzburg. Ha studiato scrittura scenica a Berlino e scrittura letteraria a Bienne (nello stesso istituto che abbiamo menzionato il mese scorso parlando di Julia Von Lucadou). Nel 2019 in italia (2016 l’edizione tedesca), è uscito il suo primo romanzo, dal bellissimo titolo Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena.
    Il libro, già candidato al Deutscher e allo Schweizer Buchpreis, è un mix tra romanzo di formazione e romanzo picaresco i cui toni passano, con disinvoltura, dal macabro all’umoristico. In molti hanno usato i termini «realismo surreale» per definire la poetica che Seinbeck ha adottato per scrivere questo testo. In effetti, leggendolo, ci si trova di fronte a scene di verosomiglianza assoluta, ottenuta grazie anche alle nitide descrizioni dei dettagli «Alexandre solleva l’asciugamano, sotto, spiaccicati, ci sono due panini ai cetrioli», immerse in contesti indefiniti spazialmente (non c’è alcun riferimento a nomi di luoghi specifici ma si parla di città rossa, casa nel mare, castello, chiesa di vetro etc.) e temporalmente. Per avvicinarlo ad un immaginario più pop, potremmo dire che sembra di leggere un film di Tim Burton!
    La storia, in breve, è quella della protagonista Loribeth, io narrante delle vicende, la quale, dopo aver ucciso, senza volerlo del tutto, un bambino, lo chiude in una valigia e parte alla ricerca del padre.
    Alla domanda: «come ha fatto a scrivere un romanzo onirico, fantastico, weird come Mio padre è un uomo sulla terra e in acqua una balena?», la risposta dell’autrice durante una presentazione (Incroci di civiltà, XII edizione, 2019) è stata molto interessante. Steinbeck ha riferito che tutto è nato dai suoi sogni (ogni mattina ha tenuto traccia di quanto sognava, prima della stesura del libro), dei sogni di scrittori famosi come Kafka e Kerouac che in passato raccontarono la loro attività onirica e dalla lettura dei brevi testi surreali dello scrittore russo Daniil Charms (per chi non lo conoscesse consiglio vivamente la lettura del suo Casi, pubblicato in Italia da Adelphi).

    Perché leggerlo? Per provare le stesse sensazioni che ci danno i quadri di De Chirico, di Frida Kahlo e di Hieronymous Bosch.

    Una citazione dal libro: «Io mi alzo e chiudo gli occhi. Dal cielo pioviggina una musica, prima sommessa, poi sempre più forte. Melodia sintetica, battito lento, un glu glu come quando si annega. Roteo la testa così i capelli volano, scrollo le spalle e giro in tondo. A un certo punto vedo Mabel baciare la ragazza con la maschera sugli occhi e mi avvicino e la bacio anch’io. Ha la lingua morbida e usa molto burro di cacao. Non porta più la maschera e ora vedo che ha la pelle molto chiara e i capelli rosso chiaro e quegli occhi strabuzzati e cerchiati di rosso, come solo i rossi di capelli, sensibili come sono, possono avere».

    Recensione di Federica Merlo

    Settembre 2021

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