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Finalità

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Nascono, nella loro forma contemporanea, alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti, in ambito religioso, con lo scopo dichiarato di umanizzare una medicina che stava vivendo la sua svolta tecno-scientifica, caratterizzata dal progressivo prevalere delle macchine al letto del malato.
È infatti al teologo Edmund Pellegrino che si deve la diffusione delle medical humanities come deriva particolare della bioetica. In questo senso, anche la nostra riflessione si colloca nei territori oltre la bioetica perché, a nostro avviso, la bioetica da sola non permette di contenere il rischio dello smarrimento dell’umano che le cure inducono a causa della progressiva e sempre più profonda scomposizione dell’uomo malato, resa necessaria dalla volontà di migliorare la loro efficacia terapeutica. È proprio per affrontare la vulnerabilità psichica causata dalla
malattia che le medical humanities cercano di trarre profitto dagli apporti culturali che possono provenire, per esempio, dalla filosofia, dall’antropologia, dalla sociologia, dalla letteratura e dalla psicologia. Per noi esse sono un modo di sentire, di guardare e di pensare la malattia che introduce nella razionalità scientifica quella dimensione simbolica che dovrebbe concorrere a orientare il prendersi cura. Nella visione delle Medical Humanities gli elementi biografici del malato sono particolarmente importanti. La narrazione, il racconto di sé, della propria storia, della propria sofferenza, angoscia, inquietudine, costituiscono l’aspetto profondamente umano che occorre considerare con rispetto. Riconoscere l’altro come persona è la condizione preliminare per prestargli cura, il fondo vitale autentico a partire dal quale i diversi saperi ritaglieranno poi, per astrazione, le proprie competenze. Un fondo vitale che precede lo stesso giudizio morale: le
storie di vita − potremmo dire − vengono prima delle teorie etiche. Le Medical Humanities non costituiscono una nuova professione, ma restituiscono alla pratica medica quella dimensione di empatia profonda che caratterizza ogni vera forma di solidarietà e di aiuto. Aprono dunque una sfida conoscitiva e interpretativa sulla malattia stessa, pretendendo di partecipare alla costruzione della diagnosi e alla terapia.

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Il desiderio dei curanti di occuparsi di medical humanities e di cercarne il significato nasce dalla volontà di curare meglio, di curare sempre più umanamente preoccupandosi della dignità e della fragilità dell’uomo malato. Una preoccupazione che ha le sue radici nella storia della medicina e delle sue battaglie, in questo senso, quindi, le medical humanities sono una scienza storica, che si confronta con la tradizione, le conquiste e i limiti del pensiero medico. Esse sono, naturalmente, anche una scienza etica, che s’interroga sui valori e sulle scelte dei curanti di fronte all’imponderabile, all’inesorabile e a volte al limite della vita sapendo modulare la beneficenza e l’autonomia rispetto al paziente e la giustizia distributiva rispetto alla collettività. Con spirito critico, le medical humanities cercano di mettere in rilievo il senso all’interno del quale agisce, a volte senza tematizzarlo, la medicina. Possono esercitare nei confronti dei curanti una funzione identitaria rafforzandone il sentimento di responsabilità rispetto alle proprie funzioni.
Per adempiere il compito terapeutico non è affatto inutile una consuetudine riflessiva che induca a interrogarsi su questioni fondamentali: come si iscrive la mia pratica nella società nella quale mi trovo? A quali valori faccio onore e quali tradisco attraverso i miei gesti? Cosa faccio effettivamente nel momento in cui realizzo un certo numero di atti medici? A quali modelli faccio riferimento, in maniera implicita o esplicita, per pensare la mia pratica?
L’etica delle medical humanities è un’etica complessa che riconosce la complessità del bene e del male, dove il male può diventare bene come il bene può diventare male. Daniel Callaham ricorda che il progresso scientifico, se inteso in modo ristretto e lasciato in balia delle biotecnologie più sfrenate e della medicina di punta senza limiti economici, può indurci a dimenticare il significato intrinseco della vulnerabilità della sofferenza. Le medical humanities si propongono allora come capacità di resistenza: intrise di quell’etica della resistenza di cui tanto ci ha parlato Edgar Morin.

La Fondazione Sasso Corbaro è nata nel 2000 per iniziativa di medici, imprenditori e studiosi ed è cresciuta e continua a crescere grazie all’appoggio delle autorità del Cantone Ticino. È stata la prima fondazione svizzera a dedicarsi alla promozione delle Medical Humanities e dell’etica clinica. Scopo della Fondazione Sasso Corbaro, perseguito grazie alle attività del suo Osservatorio per la Formazione e la Ricerca in Etica e Medical Humanities (OFREM) è promuovere la formazione, la ricerca, la documentazione, le pubblicazioni e le attività culturali attinenti alle Medical Humanities (umanesimo clinico), all’etica e ai diritti umani.

Le Medical Humanities rispondono alla volontà di introdurre nell’ambito della cura due componenti essenziali, senza le quali la pratica terapeutica rischia di ridursi a un arido intervento tecnico: in primo luogo, i criteri etici che devono opportunamente orientare le decisioni nei casi più problematici; in secondo luogo, la necessaria sensibilità verso la dignità del paziente, nel rispetto della sua sofferenza somatica e psichica.

Emerge così, da una riflessione aperta e transdisciplinare, una visione della medicina che si potrebbe definire un “umanesimo clinico”: in quest’ottica le Medical Humanities si applicano sia alla prassi terapeutica quotidiana, sia a questioni generali d’ordine etico quali, ad esempio, la valutazione dell’impatto delle condizioni socio-economiche nell’ambito dei trapianti e delle biotecnologie.

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