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Sullo scaffale

Libri

Consigli di lettura, spunti di riflessione, recensioni di libri raccolti nel Centro di documentazione della Fondazione Sasso Corbaro.

Recensioni 

  • 27-2
    L’altro nome (Settologia I-II)

    Jon Fosse
    La nave di Teseo, Milano, 2021

    Jon Fosse, scrittore norvegese che per i suoi meriti letterari vive nella residenza onoraria di Grotten, a Oslo, concessagli dal Re, è universalmente considerato ...

    Jon Fosse, scrittore norvegese che per i suoi meriti letterari vive nella residenza onoraria di Grotten, a Oslo, concessagli dal Re, è universalmente considerato uno dei massimi autori viventi (ogni anno il suo è uno dei nomi più quotati per la vittoria del Nobel). Tuttavia, nonostante sia molto prolifico e poliedrico – scrive raccolte di poesie, romanzi, libri per bambini e soprattutto testi teatrali – in italiano è arrivato ancora pochissimo della sua produzione, e, oltre a questo L’altro nome, La Nave di Teseo ha, per ora, pubblicato soltanto la novella Mattino e sera.
    L’altro nome è il primo di tre volumi di una settologia (sette parti), e contiene la parte uno e la parte due (Fosse stesso preferisce parlare di parti e non di libri). La storia narrata è molto semplice: Asle, un pittore anziano di buon successo, in grado di mantenersi con la sua arte, rimasto vedovo, vive da solo in un piccolo paesino norvegese ed è amico di Asle, il suo doppelganger, pittore anch’egli ma privo di alcun successo e consumato dall’alcool. Dopo un incidente che costringe quest’ultimo a un ricovero all’ospedale, l’Asle pittore di successo, si prende cura dell’amico e del suo cane Brage. Un altro aspetto importante della storia è che l’Asle pittore di successo sta dipingendo un quadro, una croce di Sant’Andrea composta da una linea marrone e una viola. Il quadro è al centro delle riflessioni su Dio e sull’arte, di cui la narrazione è intrisa.
    In realtà, entrambe le due parti di questo romanzo non sono altro che un lungo flusso di coscienza, privo di punti, in cui il lettore segue i pensieri che si affastellano nella mente dell’Asle di successo, che è il narratore in prima persona. A prescindere quindi dalla semplicità della storia – nel libro, fondamentalmente non succede nulla più di quanto accennato poc’anzi – la prosa di Fosse è qualcosa di incredibile e parecchio diverso da tutto quello che si può trovare oggi nelle librerie. Ripetitiva, quasi ecoica. Lo stesso messaggio, come a riprodurre quanto accade nelle nostre menti, viene spesso reiterato e, nel corso della lettura, che procede lenta come è giusto che sia per un libro che richiede costanti momenti di riflessione (quando non la rilettura di interi paragrafi!), ci sembra di intuire che il fine ultimo dello scrittore possa essere quello di volerci descrivere la monotonia dell’esistenza dell’uomo, il suo continuo interrogarsi sulla vita, sulla morte, sull’altro e sull’arte, e il rapporto con il trascendente, con la fede e con Dio.

    Perché leggerlo? Perché nonostante sia innegabile che, soprattutto all’inizio, la lettura de L’altro nome richieda un certo sforzo per riuscire ad accedervi, una volta che si è metabolizzato lo stile di Fosse, ci si rende qui davvero conto della forza della parola e delle possibilità che la letteratura ha d’indagare nel profondo l’animo umano.

    Una citazione dal libro: « […] e mi fermo davanti a osservarli, sono così belli, così belli che, se cercassi di dipingerli paragonandoli a quello che vedo, si trasformerebbero in un brutto quadro, penso, perché è così, è quasi sempre così, ciò che è bello nella vita su un quadro si imbruttisce perché è come se contenesse troppa bellezza, un buon quadro deve avere in sé un che di brutto per poter splendere come si deve, deve avere in sé elementi di buio […]».

    Recensione di Federica Merlo
    Newsletter #27 - Aprile 2022

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  • 27-3
    Domani avremo altri nomi

    Patricio Pron
    Sur, Roma, 2021

    Patricio Pron, classe ’75, è uno dei maggiori scrittori argentini della sua generazione. Con questo Domani avremo ...

    Patricio Pron, classe ’75, è uno dei maggiori scrittori argentini della sua generazione. Con questo Domani avremo altri nomi ha vinto nel 2019 il prestigioso Premio Alfaguara (tra i più importanti premi di letteratura in lingua spagnola).
    Per parlare di questo romanzo parto dalle belle parole che si trovano proprio sul sito dell’Alfaguara, che lo definiscono: «Laffascinante autopsia di una rottura damore, che va oltre lamore: è la mappatura sentimentale di una società nevrotica dove le relazioni sono prodotti di consumo […]». E nel corso della lettura la sensazione è stata davvero quella di trovarmi ad un tavolo autoptico su cui i due protagonisti, «Lui» e «Lei», sviscerano molte delle idiosincrasie e delle insicurezze dei giovani adulti di oggi. Pron, infatti, è riuscito in quell’operazione – che molti non tentano e che chi tenta spesso fallisce – di raccontare i trentenni in maniera estremamente lucida e senza essere indulgente nei loro confronti. Ne esce un romanzo pieno zeppo di spunti di riflessione nel quale, partendo da una coppia scoppiata dopo un quinquennio di convivenza, si vanno a toccare argomenti d’interesse sociale quali la differenza di genere, la maternità, il senso della relazione di coppia ai giorni nostri e si critica anche il mondo dell’editoria (il Lui protagonista è uno scrittore).
    Un capolavoro? Forse no… ma Domani avremo altri nomi ha il grande merito, a mio avviso, di far parte di quella letteratura di qualità (prosa eccellente, senza dubbio!) capace di parlare di contemporaneo senza peli sulla lingua e senza timori di accendere il dibattito su temi importanti.

    Perché leggerlo? Perché spesso tessiamo le lodi dei protagonisti… in questo caso, però, devo ammettere che il personaggio più riuscito non è né Lui, né Lei, ma M., l’amica e editor di Lui che, da sola, vale la lettura del romanzo.

    Una citazione dal libro: «[…]nel corso della sua vita adulta aveva maturato la certezza che l’attrazione per un’altra persona e il desiderio che ci appartenga sono inscindibili, ma non escludeva del tutto che una nuova generazione un po’ più ragionevole riuscisse a istituire altre forme di convivenza, principi diversi».

    Recensione di Federica Merlo
    Newsletter #27 - Aprile 2022

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  • 26-8
    Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo

    Naja Marie Aidt
    Utopia, Milano, 2021

    Naja Marie Aidt, fresca vincitrice del Nordiska Pris 2022 – il piccolo Nobel – è una scrittrice e poetessa danese classe ’63 con ...

    Naja Marie Aidt, fresca vincitrice del Nordiska Pris 2022 – il piccolo Nobel – è una scrittrice e poetessa danese classe ’63 con all’attivo già parecchie pubblicazioni. In italiano, però, arriva solo ora grazie ai tipi di Utopia, piccola, giovane ed eccellente casa editrice milanese che ha affidato alle sapienti mani di Ingrid Basso la traduzione di un libro – già finalista al National Book Award nel 2019 – a metà tra la prosa e la poesia.
    Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo, racconta la dolorosa esperienza personale di Aidt che nel 2015 ha perso uno dei suoi quattro figli, il venticinquenne Carl (il ragazzo, dopo aver ingerito con un amico dei funghetti allucinogeni, si è lanciato dalla finestra del suo appartamento al quinto piano, a Copenhagen).
    Siamo qui molto distanti dal memoir, forma letteraria spesso impiegata per questo tipo di narrazioni. Aidt, infatti, produce un ibrido di difficile definizione, fatto di frammenti diaristici in prosa, mischiati sapientemente a componimenti poetici. Inoltre, in costante dialogo con le sue parole, fa entrare quelle di altri scrittori, tra cui Whitman, Didion, Mallarmé e Dickinson e lavora parecchio sulla struttura del testo, affidando ai cambi di carattere tipografico e alle scelte d’impaginazione parte del coinvolgimento emotivo del lettore.
    Come avrete intuito, è estremamente complesso riportarvi quanto si trova all’interno di questo libro, la cui grandezza letteraria è pari alla sofferenza che si prova leggendolo. Ha quindi più senso concludere con la risposta di Aidt alla domanda «perché ha scritto questo libro?» postale dallo scrittore e editor John Freeman in questa bella intervista: «Beh, perché sono una scrittrice. Mi sono chiesta molte volte: perché dovrei sopportare il dolore che mi genera la scrittura di questo libro – scrivendolo nel mezzo del mio dolore crudo, nel mezzo del mio shock e del mio trauma? Ma penso di essere stata una scrittrice per molti, molti, molti anni, e questo è il mio ventinovesimo libro, quindi è quello che faccio. Non so come affrontare nulla in modi diversi, e inoltre ho avuto la sensazione molto forte di dover scrivere questo libro per poter scrivere qualcos’altro in futuro. Non volevo che la storia di mio figlio si mescolasse in ogni libro che avrei scritto in futuro, e sapevo anche, soprattutto, di essere completamente cambiata come essere umano, come persona e forse anche come scrittrice. Quindi ho sentito di non avere altra scelta che trovare un modo per esprimere questo, o esplorare questo momento orribile della mia vita».

    Perché leggerlo? Perché questo libro è un’opera d’arte che parla di lutto, e, in quanto tale, è capace d’illuminare anche uno dei traumi più dolorosi della nostra esistenza.

    Una citazione dal libro: «Tutta la concezione per cui il lutto sarebbe una pratica che bisogna espletare mi ripugna. Tutta la teoria per cui il dolore è una pratica che deve essere espletata per poter guarire mi rende furiosa. Io non avevo forze per lavorare. Desideravo che qualcuno mi accarezzasse la guancia e mi consolasse. Volevo cure, non lavoro. Desideravo che qualcuno sollevasse il dolore dal mio petto, per un istante soltanto».

    Recensione di Federica Merlo
    Newsletter 26 - Marzo 2022

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  • 26-9
    Maledetta Sarajevo

    Francesco Battistini e Marzio G. Main
    Neri Pozza, Vicenza, 2022

    «Le storie invecchiano solo per quelli che non ci pensano»
    Ignazio Silone (frase in esergo a Maledetta Sarajevo...

    «Le storie invecchiano solo per quelli che non ci pensano»
    Ignazio Silone (frase in esergo a Maledetta Sarajevo)

    Chi come me tra il 1991 e il 1995 aveva una decina d’anni, era già grande abbastanza da percepire una guerra a noi vicina, ma non abbastanza grande da poterla conoscere, capire… «sentire». Per questo motivo, quando pochi giorni fa è uscito il saggio Maledetta Sarajevo, scritto da due giornalisti, Francesco Battistini e Marzio G. Mian, che in quel «Vietnam d’Europa» ci sono stati, ho pensato che fosse giunta l’ora di fare i conti con quanto successo e di provare, se non a capire (è davvero possibile?), almeno a conoscere.
    Iniziata la lettura, sin dalle prime pagine mi sono reso conto di avere tra le mani un’opera non solo straordinariamente documentata e mirabilmente scritta, ma anche di un’importanza capitale. Finalmente, grazie a questo libro, sono riuscito a dare ordine mentale a quei luoghi, a quelle città, a quegli acronimi (ONU, NATO…) e a quelle persone che da bambino sentivo nominare e che, tutto d’un tratto, a guerra finita, sparirono nel nulla, senza che nessuno osasse più parlarne (mi rendo conto che quanto scrivo è molto personale e che qualcuno potrebbe aver avuto un’esperienza diversa, ma questa è stata la mia e, con una certa sicurezza, mi permetto di affermare che, anche per altri miei coetanei, è stata, purtroppo, la stessa cosa).
    È superfluo però fare cenno a quanto si trova nel libro perché, quello che è successo in quella guerra, lo si trova praticamente tutto. E, in particolare, lo si trova narrato da due giornalisti di razza, rispettando qualunque testimonianza riportata (e sono moltissime!) e mantenendo un atteggiamento super partes – appannaggio solo dei grandi – che permette al lettore di sapere che davvero nessuno, in quel conflitto, fu senza peccato!

    Perché leggerlo? Perché, nonostante ci siano pagine strazianti e nonostante nel corso della lettura ci si chieda continuamente come si siano potuti commettere crimini di una tale efferatezza e disumanità, leggere questo libro aiuta a non dimenticare e a volere fortemente che nulla di quanto successo possa mai più ripetersi.

    Una citazione dal libro: «Ancora oggi, dice Sudar, non c’è accordo sul perché questa guerra sia stata scatenata, su come sia stata condotta: «E chi prova a ragionare, teme di parlare. Perché dicendo la verità s’innesca un nuovo scontro, e così continua la guerra degli uni contro gli altri. Il fatto è che abbiamo diverse verità, non ce n’è una comune: ogni verità è di chi la dice. Anche nella chiesa c’è chi sostiene che l’oggettività non esiste, perché appena la verità entra nella mia mente, non è più tale. Io penso invece che ci si possa mettere d’accordo su che cosa sia, la verità. Ma so pure che, a pretendere una verità che in qualche modo accontenti tutti, pare di tradirla. Dire la verità sul perché è scoppiata la guerra significa offendere qualcuno. […]»

    Recensione di Nicolò S. Centemero
    Newsletter 26 - Marzo 2022

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  • 25-9
    Annientare

    Michel Houellebecq
    La Nave di Teseo, Milano, 2022

    Senza timore di essere smentita posso affermare che questo Annientare, del romanziere francese Michel Houellebecq, era il titolo più atteso ...

    Senza timore di essere smentita posso affermare che questo Annientare, del romanziere francese Michel Houellebecq, era il titolo più atteso di narrativa letteraria del 2022. E poi con lui va sempre a finire così: spacca il pubblico dei lettori in chi lo ama, chi non lo sopporta, chi lo considera uno scrittore sopravvalutato… eppure, nonostante ciò, tutti lo leggono e vende moltissimo! Pensate che in Francia la prima tiratura ha raggiunto la cifra stratosferica di 300mila copie. Va inoltre riconosciuto anche il merito dell’editore italiano, la Nave di Teseo, che pubblica questo romanzone di 700 e rotti pagine – non consueto per uno che ultimamente si «limitava» alle 250-300 – in contemporanea con l’uscita casalinga.
    Ambientato in un futuro molto prossimo, tra il 2026 e il 2027, negli ambienti del massimo potere politico francese durante la campagna elettorale per le nuove elezioni presidenziali, Annientare racconta le vicende di Paul Raison, consigliere del ministro dell’economia, marito in crisi da più di dieci anni e figlio di un padre costretto alla sedia a rotelle e all’impossibilità di parlare a causa di un grave ictus. A prescindere da una trama molto più ricca di fatti e personaggi rispetto a quanto si possa qui riassumere, è tuttavia, come sempre, la trattazione dei temi (tra cui il terrorismo internazionale, la situazione della borghesia e della classe media francese, l’immigrazione, il mondo del lavoro, la religione) che fa la fortuna dei libri del più famoso scrittore francese. Infatti, così come in molte delle sue opere precedenti, anche in Annientare Houellebecq riesce perfettamente nell’impresa d’integrare gli aspetti socio-politici – conservando la sua visione lucidissima sul presente e dal sapore profetico sul futuro – con le vicende personali dei suoi personaggi, costantemente inadeguati nei confronti della realtà che vivono e, forse anche per questo, tremendamente reali.
    Se dovessi decidere di selezionare una sola tra le tante questioni che Annientare pone al lettore, non avrei però dubbi nel dire che questo libro è stato per me soprattutto un libro sulla malattia e su come la società, con tutte le sue storture, giochi un ruolo fondamentale nel determinarne le prospettive e gli esiti.

    Perché leggerlo? Perché, che lo si ami o lo si odi, non si può non riconoscere che la penna di Houellebecq sia ad oggi, nel panorama letterario mondiale, quella maggiormente in grado di descriverci come siamo e come, molto probabilmente, saremo.

    Una citazione dal libro: «C’erano tante persone su questa terra che non avrebbe più rivisto, e ogni volta avrebbe fatto di tutto per non dare l’impressione di un addio, non avrebbe mai, in nessun momento, abbandonato un atteggiamento ragionevolmente ottimista e addirittura ironico, avrebbe fatto come tutti gli altri, avrebbe dissimulato la sua agonia. Si può anche disprezzare, e perfino odiare, la propria generazione e la propria epoca, ma piaccia o non piaccia vi si appartiene, e si agisce in maniera conforme alle sue idee; solo grazie a un’eccezionale forza morale è possibile sottrarsi alla sua influenza, e lui quella forza non l’aveva mai avuta».

    Recensione di Federica Merlo
    Newsletter 25 - Febbraio 2022

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  • 25-10
    Eredità

    Miguel Bonnefoy
    66thand2nd, Roma, 2021

    Spinta dalla curiosità di leggere lo scrittore che l’anno scorso è stato capace di convincere i librai francesi a conferirgli il loro ...

    Spinta dalla curiosità di leggere lo scrittore che l’anno scorso è stato capace di convincere i librai francesi a conferirgli il loro prestigioso premio, il Prix des Libraires, giunto ormai alla sua 67esima edizione, ho letto in poche sedute (178 pagine) questo Eredità. Si tratta del terzo romanzo che i tipi di 66thand2nd portano in Italia – in questo caso con l’ottima, e non era facile! traduzione di Francesca Bononi – del giovane Miguel Bonnefoy, classe 1986, Parigino di nascita ma con padre Cileno e madre Venezuelana.
    Bonnefoy, in questo suo ultimo libro ci racconta l’epopea di due famiglie che si intrecciano, quella dei Lonsonier e dei Lamarthe, i cui primi due membri, il vignaiolo Giurassiano Lazare e il musicista Etienne arrivano sul finire dell’Ottocento, via nave, dalla Francia al Cile, dove si stabiliscono e fanno fortuna. Scegliendo di dedicare ciascuno dei lunghi capitoli di cui il libro è composto a un unico personaggio (i vari Thérèse, Margot, El maestro, Michel René etc.), lo scrittore francese, costruisce una narrazione fatta di uomini e donne che sembrano usciti dai romanzi di Marquez e di Steinbeck. Destini sempre in bilico tra benevolenza e tragedia, questo ci troverete… e se poi siete un po’ fatalisti come me, ci vedrete anche moltissima azione del «caso».
    Va infine menzionata la scrittura: Bonnefoy ha una prosa ricchissima e le sue descrizioni di luoghi e personaggi sono il valore aggiunto di un libro che può essere letto sia da chi ama la potenza emotiva da romanzone del Sud America, sia da chi ha voglia di scovarci tante tematiche ancora molto attuali, tra cui l’emancipazione femminile (che bellezza le donne di Eredità!), gli aspetti etici di certe decisioni che la vita ci costringe a dover prendere e gli orrori delle guerre e del regime totalitario Cileno.

    Perché leggerlo? Perché non si scrivono più molti romanzi di questo tipo al giorno d’oggi. Quindi, anche se non fosse proprio nelle vostre corde, beh, dategli una chance… e vedrete che non ne rimarrete delusi.

    Una citazione dal libro: «Di Icaro conosceva unicamente l’ascensione, perché chiudeva sempre il libro prima della caduta. Guardandola si scorgevano già i tendoni a bordo pista, le maschere per l’ossigeno e le forti turbolenze. Non si era lasciata tentare, come altri, dal fascino dell’uniforme, del cuoio, del prestigio e dai galloni alati. Margot Lonsonier faceva il suo ingresso nell’aviazione come un tempo si prendevano i voti, per abbracciare una vocazione e morirvi».

    Recensione di Federica Merlo
    Newsletter 25 - Febbraio 2022

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  • 24-2
    Cronorifugio

    Georgi Gospodinov
    Voland, Roma, 2021.

    Romanzo vincitore (meritatissimo!) del Premio Strega Europeo 2021, Cronorifugio, dello scrittore bulgaro Georgi Gospodinov è una profonda e interessante riflessione sulla memoria, sulla ...

    Romanzo vincitore (meritatissimo!) del Premio Strega Europeo 2021, Cronorifugio, dello scrittore bulgaro Georgi Gospodinov è una profonda e interessante riflessione sulla memoria, sulla nostalgia e sul passato. Tuttavia, se queste potrebbero sembrarvi tematiche già ampiamente affrontate nella storia della letteratura – in effetti è così – è il come l’autore tratta la materia e la scrive che rende questo libro un unicum nell’attuale panorama letterario. Gaustin (un omino stilizzato disegnato su alcune pagine che «cammina» con il lettore), è, insieme al narratore, uno dei due personaggi protagonisti delle vicende narrate; vicende che potremmo definire quasi fantascientifiche. In una società dove, a causa dell’Alzheimer, molti perdono la memoria, Gaustin decide, prima a Zurigo e poi, dato il successo, in varie località d’Europa, di creare delle «cliniche della memoria», nelle quali i pazienti possano immergersi in epoche passate – il decennio degli anni ’60 o quello dei ’70 ad esempio – per cercare di riappropriarsi dei propri ricordi. Nella seconda parte del romanzo, a tratti anche molto divertente, satirico e trascinante, sono invece vari stati Europei a intraprendere un referendum sul passato per decidere in quale epoca storica valga la pena ritornare a vivere. Non vi pare che questo sia un chiaro riferimento a quanto succede intorno a noi con la Brexit e con le varie derive totalitarie che strizzano l’occhio alla storia recente?

    Con un’operazione geniale, sia a livello di montaggio che di sperimentalismo letterario (verso la fine si ha quasi l’impressione che anche il romanzo stesso e i suoi paragrafi si ammalino di Alzheimer) Gospodinov riesce a scrivere un testo attualissimo, capace di essere, da un lato politico e filosofico e dall’altro letterariamente innovativo, senza però far mai perdere il gusto della lettura.

    Perché leggerlo? Perché Cronorifugio è tra i migliori esempi di quella letteratura in grado di mettere in atto un tentativo di riflessione profonda sul contemporaneo, troppo spesso, ultimamente, affidata alla superficialità di altri media.

    Una citazione dal libro: «Quando le persone con le quali hai condiviso un passato se ne vanno, ne prendono con sé una metà. In realtà tutto, perché non esiste mezzo passato. È come se tu avessi tagliato verticalmente una pagina in due e leggessi le frasi solo fino alla metà, mentre l’altro legge la fine. Nessuno ci capirebbe niente. Quello che teneva in piedi l’altra metà, non c’è più. Quello che è stato così vicino nei giorni, le mattine, i pranzi, le cene e le notti, nei mesi e negli anni di questo passato… Non c’è chi possa confermarlo, non c’è con chi poter suonare insieme all’unisono. Quando mia moglie se n’è andata, mi sembra di aver perso metà del mio passato, in sostanza tutto. Il passato si suona solo a quattro mani, almeno a quattro mani».

    Recensione di Federica Merlo
    Newsletter 24 - Gennaio 2022

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  • 24-3
    Il Banchetto annuale della confraternita dei becchini

    Mathias Enard
    Edizioni E/O, Roma, 2021.

    Se avessi la facoltà di poter scegliere a chi assegnare il premio Nobel per la letteratura – considerando che va dato a uno ...

    Se avessi la facoltà di poter scegliere a chi assegnare il premio Nobel per la letteratura – considerando che va dato a uno scrittore/scrittrice vivente, che è un premio alla carriera e che vorrebbe essere anche un incentivo economico per continuare a scrivere – la mia scelta ricadrebbe sul francese Mathias Enard. Le ragioni sono molteplici, ma di sicuro, tra le principali, vi è il fatto che Enard ha prodotto sin qui un corpus di opere che spaziano dalla prosa al romanzo in versi, non solo di straordinaria qualità letteraria ma anche d’importantissimo valore storico e sociale.
    L’ultimo suo libro, in ordine di pubblicazione in italiano, è il bellissimo, già a partire dal titolo, Il banchetto annuale della confraternita dei becchini. Il protagonista è un antropologo, David Mazon, che si trasferisce da Parigi in un piccolo paesino di campagna per osservare la vita dei contadini del XXI secolo e scrivere una tesi di dottorato. Qui conoscerà molti personaggi bizzarri, tra cui il sindaco del paese, che è anche il becchino incaricato per quell’anno di organizzare la festa della confraternita al centro della storia.
    Enard, che con questo libro si distacca dal romanzo globale, per tornare a tematiche, per lui francese, più «locali», affronta il classico ma attualissimo dualismo città-campagna, indagandolo con una perizia del mezzo letterario che ha pochi eguali. Punti di vista che cambiano, continui salti temporali che gli consentono di raccontare vicende del passato, stili di scrittura e forme differenti – la prima parte come fosse un vero e proprio diario di un antropologo con «note sul campo» e la descrizione massimalista (circa 150 pagine!) del banchetto, per citarne solo due – sono puro godimento per gli amanti della grande scrittura. Non posso quindi che concordare a pieno con quanto suggerisce Paolo Landi sulla rivista «doppiozero»: «Molte pagine del Banchetto domandano lentezza: quella necessaria ad apprezzare il giro perfetto della frase, la metafora azzeccata, il sapore della lingua restituito attraverso la descrizione della squisitezza dei cibi e dei vini[…]».

    Perché leggerlo? Perché se Yoga, Solenoide e Cronorifugio (tutti già recensiti) sono state uscite importanti, per me restano comunque un gradino sotto. Il miglior romanzo del 2021 è, senza dubbio, Il banchetto. Allez Mathias, Allez, Allez!

    Una citazione dal libro: «Le librerie sono l’anima di un paese, contengono la sua parte di locale e di straniero, la sua parte di infanzia di sapere, di patrimonio e di novità. Ho pagato i due volumi e la libraia mi ha chiesto se avevo intenzione di andare a fare una gita nel Marais, questo fine settimana dovrebbe esserci bel tempo, in primavera è molto piacevole – una signora gentilissima. Se le librerie sono l’anima di una nazione, allora i librai ne sono le braccia e le gambe».

    Recensione di Federica Merlo
    Newsletter 24 - Gennaio 2022

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