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Sullo scaffale

Libri

Consigli di lettura, spunti di riflessione, recensioni di libri raccolti nel Centro di documentazione della Fondazione Sasso Corbaro.

Recensioni 

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    Città aperta

    Teju Cole
    Einaudi, Milano, 2013

    Prima di parlare di questo affascinante romanzo d’esordio (pubblicato ormai qualche anno fa) è doveroso introdurre il suo poliedrico autore. Teju Cole, americano di origine nigeriana (arrivato negli Stati Uniti ...

    Prima di parlare di questo affascinante romanzo d’esordio (pubblicato ormai qualche anno fa) è doveroso introdurre il suo poliedrico autore. Teju Cole, americano di origine nigeriana (arrivato negli Stati Uniti a 17 anni), non è solo romanziere (oltre a questo Città aperta, sempre Einaudi ha pubblicato l’altrettanto incantevole Ogni giorno è per il ladro), saggista e professore di scrittura creativa ad Harvard, ma anche fotografo, critico di fotografia (del New York Times Magazine dal 2015 fino al 2019, e qui trovate l’archivio dei suoi saggi) e curatore.

    Venendo a Città aperta… siamo di fronte a un testo sicuramente originale. In gran parte ambientato a New York e a Bruxelles, le vicende, o meglio, una serie di incontri e riflessioni su ciò che lo circonda, sono narrate in prima persona da Julius, psichiatra specializzando, mezzo nigeriano (quanto c’è di autobiografico?) e mezzo tedesco.

    Città aperta è volutamente un libro senza trama, è un flusso libero, per certi aspetti quasi un diario, anche se privo della struttura che abitualmente contraddistingue questo genere letterario. A tal proposito, per esempio, i dialoghi di Julius con una serie di immigrati incontrati casualmente durante le sue peregrinazioni (un liberiano imprigionato per più di due anni in una struttura di detenzione nel Queens; un lustrascarpe haitiano; uno studente marocchino che gestisce un Internet café a Bruxelles) non sono contrassegnati da virgolette, trattini o interruzioni di paragrafo, ma risultano formalmente indistinguibili dalla lingua del narratore.

    Difficile durante la lettura non pensare a W.G. Sebald, perché, come nel grande scrittore tedesco, non sono veri e propri eventi o mutamenti improvvisi che spingono la narrazione. Piuttosto, e qui sta la grandezza di Cole, il testo è una sorta di costante indagine accidentale, ricca di colti rimandi musicali (Mahler, il Jazz...), letterari (Roland Barthes, Tahar Ben Jelloun...) e artistici (Velasquez...), dove ciò che coinvolge il lettore è l’immedesimazione col narratore che sembra usare la scrittura per indagare e accettare la sua solitudine.

    Difficile anche non pensare a Zadie Smith (tanti gli aspetti biografici in comune tra la scrittrice inglese e Cole), perché, nonostante la ricchezza tematica (la morte, i difficili rapporti familiari, il riscaldamento globale, l’11 settembre, per citarne solo alcuni) ciò che contraddistinge Città aperta, a volte in maniera velata, a volte più esplicita, è la costante presenza, come nella Smith, di “lively multiracial themes” (“vivaci tematiche multirazziali” come le ha definite J. Wood nell’articolo The arrival of enigmas, The New Yorker, 2011).

    Perché leggerlo? Per conoscere Teju Cole, lasciandosi ammaliare non solo dai suoi due romanzi ma anche dalla sua produzione saggistica (L’estraneo e il noto, Contrasto, Roma, 2018), e fotografica (Punto d’ombra, Contrasto, Roma, 2014). Una curiosità: lo scrittore, che nel 2014 ha vissuto sei mesi a Zurigo su invito della Literaturhaus per una residenza artistica, ama moltissimo la Svizzera e ha recentemente pubblicato un libro fotografico, Fernwhe (Mack, Londra, 2020), che raccoglie fotografie fatte da lui dal 2014 al 2019 nei suoi ripetuti viaggi nel nostro paese.

    Una citazione dal libro: «La musica di Mahler fece da sfondo alle mie attività per tutto il giorno seguente. C’era una nuova intensità anche nei dettagli più comuni, in ospedale […], come se la precisione della struttura orchestrale si specchiasse nel mondo visibile, e ogni particolare fosse diventato in qualche modo significativo. Uno dei miei pazienti si era seduto di fronte a me con le gambe accavallate, e il piede sollevato, il destro, che si muoveva a scatti nella lucida scarpa nera, sembrava anch’esso stranamente parte di quell’intricato mondo musicale».

    Federica Merlo

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    Il colibrì

    Sandro Veronesi
    La Nave di Teseo, Milano, 2019

    Fresco vincitore del premio Strega 2020 (che fa di Sandro Veronesi l’unico scrittore, insieme a Paolo Volponi, ad aver vinto due volte il più prestigioso riconoscimento letterario italiano), Il ...

    Fresco vincitore del premio Strega 2020 (che fa di Sandro Veronesi l’unico scrittore, insieme a Paolo Volponi, ad aver vinto due volte il più prestigioso riconoscimento letterario italiano), Il colibrì narra la storia tormentata – degli amori, dei tradimenti, delle sconfitte, delle difficili relazioni interpersonali e soprattutto dei lutti – di Marco Carrera, oculista fiorentino soprannominato proprio il colibrì perché da bimbetto cresceva poco ed era bassino. La metafora con l’uccello, però, risulta avere in realtà una duplice accezione perché descrive alla perfezione anche i tratti caratteriali del protagonista. Carrera infatti, come il piccolissimo volatile tropicale, impegnerà tutte le sue energie per restare sospeso, quasi immobile, continuando imperterrito a resistere nonostante tutto quello che la vita gli riserverà.

    Parlare della trama rischierebbe irrimediabilmente di rovinare i colpi di scena, le svolte improvvise e i grandi dolori che il lettore si trova ad affrontare pagina dopo pagina. Il testo, almeno fino a circa cento pagine dal termine è, a mio avviso, un libro quasi perfetto (forse troppo?). Seppur non una novità, ho trovato geniale la mescolanza di forme: lettere, sms, diari, frammenti di appunti, persino una lista (tratto distintivo della prosa dello scrittore toscano che è, tra l’altro, laureato in architettura) degli oggetti d’arredamento di design contenuti nella vecchia casa di famiglia. Seppur non una novità anche in questo caso, ho trovato gestita magistralmente la non linearità temporale nel susseguirsi dei brevi capitoli che sincopa il ritmo ravvivandolo continuamente.

    Insomma… Sandro Veronesi con questo Il colibrì, che può anche non piacere e che a mio parere, resta inferiore a Caos calmo (Strega nel 2006, La nave di Teseo lo ha recentemente ristampato!), si conferma tra i migliori scrittori in circolazione in Italia.

    Perché leggerlo? Ci sono poche pagine che da sole potrebbero valere tutto il libro. Veronesi, in una nota, dichiara che il capitolo «Ai Mulinelli» è una riscrittura di uno dei racconti più belli di Beppe Fenoglio, «Il Gorgo». E, così, da un capolavoro… ne è venuto fuori un altro.

    Una citazione dal libro: «Dovrebbe essere noto – e invece non lo è – che il destino dei rapporti tra persone viene deciso all’inizio, una volta per tutte, sempre, e che per sapere in anticipo come andranno a finire le cose basta guardare come sono cominciate. In effetti, quando un rapporto nasce c’è sempre un momento di illuminazione nel quale si riesce anche a vederlo crescere, distendersi nel tempo, diventare ciò che diventerà e finire come finirà – tutto insieme. Si vede bene perché in realtà è già tutto contenuto nell’inizio, come la forma di ogni cosa è contenuta nel suo primo manifestarsi. Ma si tratta di un momento, per l’appunto, e poi quella visione ispirata svanisce, o viene rimossa, ed è solo per questo che le storie tra le persone producono sorprese, danni, piacere o dolore imprevisto».

    Federica Merlo

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    Riparare i viventi

    Maylis de Kerangal
    Feltrinelli, Milano, 2015

    Riparare i viventi, della filosofa e sociologa francese Maylis de Kerangal, è il racconto di 24 ore. Simon e suoi due amici Chris e John fanno surf in una gelida ...

    Riparare i viventi, della filosofa e sociologa francese Maylis de Kerangal, è il racconto di 24 ore. Simon e suoi due amici Chris e John fanno surf in una gelida mattina di febbraio nella Francia del nord, a Le Havre (luogo dove l’autrice stessa ha trascorso l’infanzia). Dopo un’epica sessione tra le onde oceaniche, i tre fanno rientro verso casa in un vecchio furgoncino stile hippie. Chi guida, Chris, non si capisce se per un colpo di sonno o per colpa del ghiaccio esce di strada andando a sbattere contro un palo. L’impatto, che proietta Simon fuori dall’abitacolo, procurerà al giovane lesioni al cervello irreversibili, lasciandolo in stato di morte cerebrale. A questo punto l’infermiere Thomas Rémige, coordinatore della donazione di organi, avvia il complicato (burocraticamente ma soprattutto moralmente!) processo che permetterà al cuore di Simon, ancora in perfetta forma, di «riparare una vivente», la traduttrice Parigina Claire Méjan. A mio avviso, la grandezza di questo breve romanzo (218 pagine), definito sulla quarta di copertina da un blurb azzeccatissimo «bello come una tragedia antica», non sta solo nella vicenda narrata ma nella sua coralità. Più facile sarebbe stato concentrarsi su Simon, renderlo protagonista unico e assoluto della sua storia. De Kerangal, invece, liberando la medicina dal suo peculiare linguaggio tecnico (senza però che i dettagli più realistici vengano meno), riesce a descrivere con una prosa perfetta e in maniera mai superficiale, pietistica o scontata tutta la rete di personaggi che viene coinvolta dal tragico evento. Il risultato è quello di portare il lettore di fronte alla «vita stessa, la catena umana di tutte quelle persone – fra cui il medico e l’infermiera del reparto di rianimazione e i loro piccoli gesti quotidiani – che permeteranno di riparare alla intollerabile ferita nel tessuto sociale rappresentata dalla morte di Simon». (F. Musolino, minima&moralia, 2015).

    Perché leggerlo? Perché tocca argomenti fondanti la nostra natura di «essere umani». In particolare, il concetto ontologico del «dono», alla base della medicina dei trapianti, e la desacralizzazione del corpo, resa possibile dalle tecnologie a disposizione nelle terapie intensive dei moderni ospedali.

    Una citazione dal libro: «Anche la strada è silenziosa, silenziosa e monocroma come il resto del mondo. La catastrofe si è propagata agli elementi, ai luoghi, alle cose, un flagello, come se tutto si conformasse a quanto è accaduto quella mattina, dietro le falesie […]».

    Nota: Il 27.05.2020, in occasione del Premio Von Rezzoni XIV, l'autrice ha conversato con Philippe Lançon, scrittore francese finalista al premio con il suo libro La traversata (Edizioni e/o, Roma, 2020). La traversata è stato recensito nella Newsletter #2.

    Federica Merlo

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  • 978880624395HIG
    I colpevoli

    Andrea Pomella
    Einaudi, Milano, 2020

    Dopo aver scritto un meraviglioso memoir sulla sua depressione, (L’uomo che trema, Einaudi, Milano, 2018) Andrea Pomella (intervistato sul prossimo numero, il 46, della ...

    Dopo aver scritto un meraviglioso memoir sulla sua depressione, (L’uomo che trema, Einaudi, Milano, 2018) Andrea Pomella (intervistato sul prossimo numero, il 46, della Rivista per le Medical Humanities), continua a raccontarci di sé e pubblica, sempre nell’elegante collana Supercoralli di Einaudi, I colpevoli. Premessa: è impossibile parlare senza metterci il cuore dei libri di un amico, soprattutto se l’hai conosciuto grazie alla passione per le sue parole. Comunque… I colpevoli nasce dal Pomella bambino che dice a suo padre, andatosene via di casa, «Non voglio più vederti». È questo rifiuto, che dura trentasette anni, e si conclude il 16 dicembre del 2017, all’origine di tutta la narrazione. Lo scrittore, ormai quarantasettenne, non racconta però, come ci si potrebbe aspettare, la ricostruzione del rapporto con il padre, ormai sessantottenne. Di questo «rapporto» Pomella ne fa piuttosto un’analisi «scrupolosa e senza scrupoli», alternandola a digressioni sia personali (sulla vita con la moglie e il figlio, sul lavoro, sull’infanzia) sia extra-personali (bellissimi i capitoli che parlano dei musicisti padre e figlio Tim e Jeff Buckley e della Lettera al padre di Kafka) che hanno lo scopo di fornire al lettore degli «appigli» per non essere interamente trascinato in tutti i non risolti di un tradimento, di una colpa, e forse anche… di un perdono sui generis.

    Perché leggerlo? Perché la penna di Andrea Pomella è tra le migliori in Italia oggi. Inoltre, perché la letteratura è fatta anche di confronti e fil rouge e I colpevoli si colloca di diritto e con merito tra i più importanti testi autobiografici scritti negli ultimi anni, insieme a capolavori come Città sola di Olivia Laing, Brevemente risplendiamo sulla terra di Ocean Vuong (recensione sulla Newsletter #4) e a La Straniera di Claudia Durastanti (intervistata sul numero 44 della Rivista per le Medical Humanities).

    Una citazione dal libro: «Abbiamo lo stesso tono, identico il fluire delle frasi, l’ascesa e la discesa, le pause e le attese tra una parola e l’altra. […] Ho ereditato da te anche questo, non l’ho assimilato per frequentazione. Se tu fossi fuggito di casa ancor prima che nascessi sarebbe stata la stessa cosa. È affascinante il modo in cui la natura se ne infischia dei nostri traumi».

    Nota: Da il suo I colpevoli Andrea Pomella ha tratto anche un podcast in 4 episodi in cui narra le storie di alcuni grandi della letteratura, della musica, dell’arte e del cinema… «storie di figli che, nel corso della loro vita, si sono persi nell’ombra fitta della figura paterna, che hanno patito la mancanza del padre o che il padre lo hanno combattuto, che hanno tradito e che sono stati traditi».

    Federica Merlo e Nicolò Saverio Centemero

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  • 9788860445605_0_536_0_75
    Tutti i bambini tranne uno

    Philippe Forest
    Fandango, Roma, 2018

    Philippe Forest è un professore, scrittore e critico letterario e cinematografico. Tutti i bambini tranne uno (titolo originale L’enfant éternel) è il suo primo romanzo e lo ...

    Philippe Forest è un professore, scrittore e critico letterario e cinematografico. Tutti i bambini tranne uno (titolo originale L’enfant éternel) è il suo primo romanzo e lo scrisse quando aveva 35 anni nel 1997. Nel libro, Forest, racconta la vicenda di Pauline, la sua bambina, morta all’età di quattro anni a causa di un osteosarcoma. Non me la sento di definire queste poche righe «recensione», mi capirete... come si fa?! Quello che invece credo abbia senso indicare a chi volesse, come ho fatto io, portare a termine una lettura così profonda e straziante è che le pagine di questo libro, nate dal dolore, sono pagine in cui il dolore stesso non viene mai descritto per trovare salvezza (per Forest non c’è potere terapeutico nella scrittura) o per pietismo, ma per tentare di comprenderlo. Lo scrittore si mette accanto alla sua sofferenza e cerca, attraverso il filtro della scrittura, di rivoltarla, di torcerla, di spremerla nel tentativo di darle un senso.

    Perché leggerlo? Perché Forest si distanzia anni luce dalle molte narrazioni in cui il dolore personale viene usato per creare un’empatia effimera che, però, a mio avviso, una volta riposto il libro lascia al lettore poco o niente. Inoltre, lo scrittore francese è un gigante (leggete la nota a fine libro scritta dalla sua traduttrice italiana Gabriella Bosco... è illuminante!), ed è capace di scomodare mostri sacri quali Hugo, Mallarmé e il Barrie di Peter Pan (Wendy diventa quasi alter ego della piccola Pauline in alcuni passaggi) utilizzandoli come nobilissimi strumenti per quella costante analisi della sofferenza che permea ogni pagina. In ultimo, perché e credetemi, in questo libro troverete anche tanto, tantissimo, amore.

    Una citazione dal libro: «Ormai gli agonizzanti non esalano più l’ultimo respiro. Una lunga lingua di plastica scende nella loro gola passando per le narici […]. Respirano così, assistiti e incapaci del minimo suono. La tecnica batte in velocità il desiderio di dire dei vivi. Tutt’a un tratto è troppo tardi. Non è ancora la morte ma, fuori del sonno comatoso, è già il silenzio».

    Federica Merlo

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    Carnaio

    Giulio Cavalli
    Fandango, Roma, 2018

    Giulio Cavalli è un giornalista, scrittore e attore teatrale. Molto spesso nel suo lavoro ha trattato il tema dell’immigrazione dal punto di vista di chi la vive in prima persona. ...

    Giulio Cavalli è un giornalista, scrittore e attore teatrale. Molto spesso nel suo lavoro ha trattato il tema dell’immigrazione dal punto di vista di chi la vive in prima persona. Nel 2018 è uscito il suo romanzo Carnaio, finalista al premio Strega e al premio Campiello. In Carnaio, che è a tutti gli effetti un romanzo distopico, siamo a DF (citazione del Distrito Federal di Roberto Bolaño) un paese qualsiasi dell’Italia meridionale affacciato sulla costa, nel quale da un giorno all’altro iniziano ad arrivare ondate di corpi morti, tutti uguali. Senza che nessuno ricerchi l’origine e la causa di questo fenomeno, i cittadini si danno da fare per trasformare questo dramma in opportunità economica, usando i corpi in modi parecchio eccentrici. Tale operato susciterà l’intervento da parte dello Stato che, tuttavia, innescherà un processo di isolamento estremo degli abitanti di DF guidati dal loro sindaco (con chiusura delle frontiere, utilizzo di armi per difendere i confini, cittadinanze concesse soltanto agli autoctoni ed espulsione di giornalisti) e porterà il paese a chiudersi in una vera e propria bolla di plexiglas.

    In risposta a una domanda sul tema di Carnaio durante un’intervista, Cavalli ha detto che il libro non parla tanto di immigrazione ma si concentra piuttosto sulla disumanizzazione che questa ha prodotto negli anni recenti su chi accoglie, sul «popolo spaventato». Un’altra caratterista peculiare che rende questo libro uno dei migliori romanzi di genere usciti nel panorama letterario italiano negli ultimi anni è sicuramente la forza della lingua utilizzata che, grazie alle doti dello scrittore «fluisce con naturalezza all’interno di architetture complesse […] impreziosita da espressioni ingegnose e parole rare» (D. Sinfonico, La balena bianca, 2019).

    Perché leggerlo? Perché ci spiega cosa succede quando, per proteggere il nostro operato, spostiamo l’etica «un po’ più in là» e decidiamo che quello che ieri «non era giusto» oggi «giusto», purtroppo, lo diventa.

    Una citazione dal libro: «Quando se ne va l’umanità, anche il vero diventa un lusso: non è per ignoranza, come potrebbe sembrare, ma per un rimescolamento avvelenato delle priorità. Il trucco, mamma, sta nel convincere le persone che esista qualcosa di altro da proteggere […] e che tutto il resto sia terribilmente poco importante».

    Federica Merlo

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    Le gratitudini

    Delphine De Vigan
    Einaudi, Milano, 2020

    Le gratitudini, della scrittrice francese Delphine De Vigan, è un libro breve e scorrevolissimo (circa 150 pagine) che si legge facilmente in una sola seduta. La protagonista è Michka, un’anziana ...

    Le gratitudini, della scrittrice francese Delphine De Vigan, è un libro breve e scorrevolissimo (circa 150 pagine) che si legge facilmente in una sola seduta. La protagonista è Michka, un’anziana signora, ex correttrice di bozze di una grande rivista, che a causa di una malattia neurodegenerativa sta perdendo le parole. Per questo motivo e per via di qualche altro intoppo nelle attività quotidiane, Michka vede venir meno la sua autonomia ed è costretta a trasferirsi, nonostante sarebbe rimasta volentieri nel suo accogliente appartamento parigino, in una residenza per anziani. Accanto alla protagonista e molto legati ad essa, ci sono nel libro altri due personaggi importanti: Marie, l’ex vicina di casa di cui l’anziana signora è stata quasi una seconda madre e Jérôme, l’ortofonista che cura le sue parole «birichine». A di là di alcune brevi parti narrate, il libro è composto per la stragrande maggioranza da dialoghi. Piacevole la scelta della De Vigan di alternare capitoli in cui ora Marie, ora Jérôme ci raccontano Michka e chiacchierano con lei. I botta-e-risposta sono spesso divertenti e ricchi di piccoli strafalcioni dell’anziana signora che rendono un «grazie» un «gratis» e un «va bene» un «fa pena». Nonostante tratti temi complessi e molto attuali quali l’invecchiamento e le malattie neurodegenerative che colpiscono l’anziano, la De Vigan (considerata in patria una «scrittrice sociale» per via degli argomenti presenti nella sua precedente produzione tra cui anoressia, mobbing e precarietà sul posto di lavoro, suicidio, senzatetto etc.) ci presenta il tutto con grande semplicità e dolcezza, pur lasciando nel lettore molti spunti di riflessione profondi ed esistenziali («Possiamo rallentare le cose, ma non possiamo fermarle», «Invecchiare è imparare a perdere [...]. Ecco quello che vedo io»).

    Perché leggerlo? Per rispondere alla domanda che ci viene posta nell’incipit: «vi siete mai chiesti quante volte al giorno dite grazie?» e ritrovare il valore della gratitudine.

    Una citazione dal libro: « – Perché dice le “persone anziane”? Dovrebbe dire “i vecchi”. È bello, “i vecchi”. Ha il merito di essere fiero e tondo. Lei dice “i giovani”, no? Non “le persone giovani” – Ha ragione. Dà importanza alle parole, Michka, mi fa piacere».

    Federica Merlo

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    Brevemente risplendiamo sulla terra

    Ocean Vuong
    La nave di Teseo, Milano, 2020

    Tradotto in italiano da Claudia Durastanti (scrittrice intervistata nel numero 44 della rMH) Brevemente risplendiamo sulla terra è l’...

    Tradotto in italiano da Claudia Durastanti (scrittrice intervistata nel numero 44 della rMH) Brevemente risplendiamo sulla terra è l’esordio in prosa del giovane poeta di origine Vietnamita, Ocean Voung (la sua raccolta di poesie Cielo notturno con fori d’uscita, pubblicata in italiano sempre da La Nave di Teseo, ha vinto, tra gli altri, il famoso premio T. S. Eliot). Vuong, che nel 1990 si è trasferito negli Stati Uniti e si è formato grazie a professori del calibro di Ben Lerner, ha scritto un libro sperimentale e poetico, ricco di influssi autobiografici. A livello di struttura, si tratta di una lunga lettera scritta da un figlio, «Little Dog» (come Vuong viene chiamato nel libro), alla madre Rose, la quale, tuttavia, non sa leggere. Questo rende il testo, in realtà, un prolungato racconto interiore dell’autore, denso di meditazioni di tipo quasi saggistico e sezioni poetiche al limite del componimento in versi. Tre sono gli aspetti che caratterizzano fortemente questo memoir. Il primo, è l’incredibile molteplicità di temi che Voung riesce a trattare (la memoria, il fallimento dell’integrazione degli immigrati, l’amore omosessuale, la violenza domestica, le armi, il disturbo post-traumatico da stress, l’abuso di ossicodone che devasta negli Stati Uniti le classi sociali meno abbienti), il secondo è l’utilizzo, come spesso avviene anche nelle sue poesie, di immagini tratte dal regno animale (molto evocativa è quella iniziale della migrazione delle farfalle monarca verso sud) e il terzo, che a mio modo di vedere risulta essere anche il più interessante e riuscito, sono le riflessioni sul senso della scrittura e della parola «[…] invidio le parole per essere capaci di fare quello che noi non sappiamo mai fare, sono capaci di dire tutto di sé rimanendosene ferme e basta, essendo e basta».

    Perché leggerlo? Facile… perché è leggere poesia!

    Una citazione dal libro: «A volte, quando non ci penso troppo, mi viene in mente che una ferita è anche il punto in cui la carne rincontra se stessa, chiedendo all’altra estremità: dove sei stata?».

    Federica Merlo

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