Sullo scaffale
Consigli di visione, spunti di riflessione, recensioni di film e libri raccolti nel Centro di documentazione della Fondazione Sasso Corbaro.
Recensioni
- Il passeggero
Cormac McCarthy
Einaudi, Torino, 2023I non lettori conoscono Cormac McCarthy perché da un suo libro – minore, a onor del vero – è stato tratto quel meraviglioso film che è Non è un paese per vecchi, dei fratelli Cohen. Per i lettori invece, questo signore, morto pochi giorni fa, il 13 giugno 2023, appena prima di compiere novant’anni, è noto soprattutto per Suttree, per la Trilogia della frontiera, per Meridiano di sangue e per La strada, insignito del premio Pulitzer nel 2007.
McCarthy, che mancava alla scrittura da ormai 16 anni (proprio da La strada), ha finalmente dato alle stampe, a ottobre dell’anno scorso negli States e da poco in Italia (con la traduzione – una impresa non da poco! – della bravissima Maurizia Balmelli), Il passeggero. Il romanzo in realtà è parte di un dittico, di una dualogia, composta anche da Stella Maris, già uscito in inglese e che in Italia, sempre per Einaudi, che di McCarthy detiene i diritti di tutte le opere, uscirà il 23 settembre.
Sarà che è la recente dipartita di un mio mito, sarà che attendevo da moltissimo Il passeggero, sarà che l’ho amato come, del resto è accaduto per tanti altri suoi libri, alla follia… ma mi viene estremamente difficile recensire questo ennesimo capolavoro. Perché sì, a mio modestissimo parere (ma se vi andate a leggere le varie recensioni delle più importanti testate americane – il New Yorker, per fare un nome a caso – mi pare che io sia piuttosto allineato a quanto di questo libro si racconta in giro) siamo ancora di fronte a un capolavoro, a «un’impresa più grande di Meridiano di sangue, il suo capolavoro più antico, o di La strada, il suo capolavoro più recente» come ha scritto il critico Graeme Wood sul The Atlantic.
E allora, in breve, brevissimo, vi dico solo che è la storia di due fratelli, Bobby e Alicia Western e del loro amore. Aggiungo che 10 anni prima, lei, è morta suicida e lui, per questo, non si da pace. Aggiungo che Alicia era un genio, un genio malato di schizofrenia paranoide. Aggiungo che tanto amore come quello che c’è ne Il passeggero, io l’ho letto raramente. Che due personaggi così belli, io, tra le pagine di un libro li ho incontrati raramente. Aggiungo che ci sono, come sempre in McCarthy tanti Stati Uniti – il Vietnam, la bomba atomica, la CIA – tanta scienza – fisica quantistica e matematica, in questo caso – e il tema della morte. Aggiungo che la scrittura è… beh, perfetta. E poi… e poi allora finisco col dirvi che per leggerlo potete al massimo aspettare settembre… perché io che non l’ho fatto, ora sto attendendo con ansia e trepidazione (e la triste consapevolezza che sarà l’ultimo romanzo del grandissimo Cormac McCarthy), Stella Maris.Perché leggerlo? Per quell’amore lì, di cui vi parlavo poc’anzi. E per quella scrittura lì, non gradini, ma scalinate intere sopra a tanti.
Una citazione dal libro: «Era stato suo padre a portarla da tutti quei medici. Lui che se ne stava seduto al tavolo di cucina nel vecchio cascinale con lo sguardo fuori sui campi fino al torrente e ai boschi al di là. Si era annotato su un taccuino le cose che lei aveva detto e lui non aveva capito e le leggeva e rileggeva finché alla fine forse si è reso conto che la sua malattia – come lui la chiamava – non era un disturbo ma un messaggio. Più di una volta si era voltato e l’aveva sorpresa sulla porta che lo guardava. Una Fräulein Gottestochter che recava doni di cui lei stessa alla fine dei conti non sarebbe stata avvocata».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 41 - Giugno 2023...
I non lettori conoscono Cormac McCarthy perché da un suo libro – minore, a onor del vero – è stato tratto quel meraviglioso film che è Non è un paese per vecchi, dei fratelli Cohen. Per i lettori invece, questo signore, morto pochi giorni fa, il 13 giugno 2023, appena prima di compiere novant’anni, è noto soprattutto per Suttree, per la Trilogia della frontiera, per Meridiano di sangue e per La strada, insignito del premio Pulitzer nel 2007.
McCarthy, che mancava alla scrittura da ormai 16 anni (proprio da La strada), ha finalmente dato alle stampe, a ottobre dell’anno scorso negli States e da poco in Italia (con la traduzione – una impresa non da poco! – della bravissima Maurizia Balmelli), Il passeggero. Il romanzo in realtà è parte di un dittico, di una dualogia, composta anche da Stella Maris, già uscito in inglese e che in Italia, sempre per Einaudi, che di McCarthy detiene i diritti di tutte le opere, uscirà il 23 settembre.
Sarà che è la recente dipartita di un mio mito, sarà che attendevo da moltissimo Il passeggero, sarà che l’ho amato come, del resto è accaduto per tanti altri suoi libri, alla follia… ma mi viene estremamente difficile recensire questo ennesimo capolavoro. Perché sì, a mio modestissimo parere (ma se vi andate a leggere le varie recensioni delle più importanti testate americane – il New Yorker, per fare un nome a caso – mi pare che io sia piuttosto allineato a quanto di questo libro si racconta in giro) siamo ancora di fronte a un capolavoro, a «un’impresa più grande di Meridiano di sangue, il suo capolavoro più antico, o di La strada, il suo capolavoro più recente» come ha scritto il critico Graeme Wood sul The Atlantic.
E allora, in breve, brevissimo, vi dico solo che è la storia di due fratelli, Bobby e Alicia Western e del loro amore. Aggiungo che 10 anni prima, lei, è morta suicida e lui, per questo, non si da pace. Aggiungo che Alicia era un genio, un genio malato di schizofrenia paranoide. Aggiungo che tanto amore come quello che c’è ne Il passeggero, io l’ho letto raramente. Che due personaggi così belli, io, tra le pagine di un libro li ho incontrati raramente. Aggiungo che ci sono, come sempre in McCarthy tanti Stati Uniti – il Vietnam, la bomba atomica, la CIA – tanta scienza – fisica quantistica e matematica, in questo caso – e il tema della morte. Aggiungo che la scrittura è… beh, perfetta. E poi… e poi allora finisco col dirvi che per leggerlo potete al massimo aspettare settembre… perché io che non l’ho fatto, ora sto attendendo con ansia e trepidazione (e la triste consapevolezza che sarà l’ultimo romanzo del grandissimo Cormac McCarthy), Stella Maris.Perché leggerlo? Per quell’amore lì, di cui vi parlavo poc’anzi. E per quella scrittura lì, non gradini, ma scalinate intere sopra a tanti.
Una citazione dal libro: «Era stato suo padre a portarla da tutti quei medici. Lui che se ne stava seduto al tavolo di cucina nel vecchio cascinale con lo sguardo fuori sui campi fino al torrente e ai boschi al di là. Si era annotato su un taccuino le cose che lei aveva detto e lui non aveva capito e le leggeva e rileggeva finché alla fine forse si è reso conto che la sua malattia – come lui la chiamava – non era un disturbo ma un messaggio. Più di una volta si era voltato e l’aveva sorpresa sulla porta che lo guardava. Una Fräulein Gottestochter che recava doni di cui lei stessa alla fine dei conti non sarebbe stata avvocata».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 41 - Giugno 2023ChiudiLeggi la recensione
- Vivi veloce
Brigitte Giraud
Guanda, Milano, 2023Quando esce in italiano il libro che ha vinto l’ultima edizione del premio Goncourt (il più prestigioso premio letterario francese), è per me sempre una festa. La ragione è semplice: sin dalla sua prima edizione, nel 1903, la qualità delle opere premiate ha pochi eguali al mondo. Anzi, vi consiglio caldamente di guardare, per trarre ispirazione per le prossime letture, il palmares qui e di leggere le recensioni già comparse in precedenza «Sullo scaffale», di alcuni dei titoli premiati (Dubois e Sarr).
L’ultima edizione, quella del 2022 (il premio viene consegnato nel mese di novembre), è stata vinta dal memoir Vivi veloce, della scrittrice Brigitte Giraud, nata in Algeria ma lionese d’adozione.
Il libro autobiografico racconta, a vent’anni di distanza dai fatti, la morte del marito di Giraud, l’allora quarantunenne Claude, giornalista musicale, disarcionato da una potente motocicletta Honda, il 22 giugno 1999.
Giraud, che con il marito, poco prima che questo morisse, aveva comprato una nuova casa dove si sarebbero trasferiti con il figlio, parte proprio dalla recente vendita di questo immobile, diventato ormai per lei una sorta di simbolo della sua relazione brutalmente distrutta dall’assurdo incidente, per raccontare la sua personalissima elaborazione del lutto. Così, praticamente ogni capitolo in cui è diviso il libro, è un «Se»: «Se Claude non avesse preso la moto di mio fratello», «Se non avessi visto quella casa»… che tenta di trovare le connessioni tra un evento – significativo o di poco conto – capace di aver determinato o meglio, essere stato la colpa, di quanto accaduto a Claude.
Devo confessare che questo tipo di approccio mi ha parecchio spiazzato. Non sono convinta che, almeno per me, possa funzionare una visione di questo tipo: «se non avessi fatto X o se Tizio o Caio non avessero fatto Y allora Z non sarebbe successo». Tuttavia, la lettura di Vivi veloce, libro che, al di là delle drammatiche vicende narrate, è indubbiamente scritto bene, con una prosa asciutta ed elegante, mi ha stimolato a riflettere su quanto quello che facciamo e quello che ci capita nel nostro quotidiano siano in grado di determinare, in maniera potentissima, ciò che potrebbe accaderci. Alla fine, resto però con questa domanda che rivolgo anche a voi: ha senso cercare a posteriori le ragioni di ciò che ci succede?Perché leggerlo? Perché questo libro può piacere oppure no (anche la critica si è molto divisa e, come avrete intuito, pure a me non ha del tutto convinto), ma gli va certamente riconosciuto il merito di toccare in maniera molto intima e senza eccessi di retorica il tema universale della perdita e della solitudine che ne deriva.
Una citazione dal libro: «Era forse l’eco lontana, conservata nel ricordo, della terrazza di Algeri dove andava in triciclo da bambino. Quel grande cielo, nel quale a volte risuonavano gli spari. Ma io preferivo stare in basso. Sulla terraferma. Ricordo quello slancio, che solo dopo mi è sembrato sospetto, quel desiderio sempre più ossessivo».
Federica Merlo
Newsletter 40 - Maggio 2023...
Quando esce in italiano il libro che ha vinto l’ultima edizione del premio Goncourt (il più prestigioso premio letterario francese), è per me sempre una festa. La ragione è semplice: sin dalla sua prima edizione, nel 1903, la qualità delle opere premiate ha pochi eguali al mondo. Anzi, vi consiglio caldamente di guardare, per trarre ispirazione per le prossime letture, il palmares qui e di leggere le recensioni già comparse in precedenza «Sullo scaffale», di alcuni dei titoli premiati (Dubois e Sarr).
L’ultima edizione, quella del 2022 (il premio viene consegnato nel mese di novembre), è stata vinta dal memoir Vivi veloce, della scrittrice Brigitte Giraud, nata in Algeria ma lionese d’adozione.
Il libro autobiografico racconta, a vent’anni di distanza dai fatti, la morte del marito di Giraud, l’allora quarantunenne Claude, giornalista musicale, disarcionato da una potente motocicletta Honda, il 22 giugno 1999.
Giraud, che con il marito, poco prima che questo morisse, aveva comprato una nuova casa dove si sarebbero trasferiti con il figlio, parte proprio dalla recente vendita di questo immobile, diventato ormai per lei una sorta di simbolo della sua relazione brutalmente distrutta dall’assurdo incidente, per raccontare la sua personalissima elaborazione del lutto. Così, praticamente ogni capitolo in cui è diviso il libro, è un «Se»: «Se Claude non avesse preso la moto di mio fratello», «Se non avessi visto quella casa»… che tenta di trovare le connessioni tra un evento – significativo o di poco conto – capace di aver determinato o meglio, essere stato la colpa, di quanto accaduto a Claude.
Devo confessare che questo tipo di approccio mi ha parecchio spiazzato. Non sono convinta che, almeno per me, possa funzionare una visione di questo tipo: «se non avessi fatto X o se Tizio o Caio non avessero fatto Y allora Z non sarebbe successo». Tuttavia, la lettura di Vivi veloce, libro che, al di là delle drammatiche vicende narrate, è indubbiamente scritto bene, con una prosa asciutta ed elegante, mi ha stimolato a riflettere su quanto quello che facciamo e quello che ci capita nel nostro quotidiano siano in grado di determinare, in maniera potentissima, ciò che potrebbe accaderci. Alla fine, resto però con questa domanda che rivolgo anche a voi: ha senso cercare a posteriori le ragioni di ciò che ci succede?Perché leggerlo? Perché questo libro può piacere oppure no (anche la critica si è molto divisa e, come avrete intuito, pure a me non ha del tutto convinto), ma gli va certamente riconosciuto il merito di toccare in maniera molto intima e senza eccessi di retorica il tema universale della perdita e della solitudine che ne deriva.
Una citazione dal libro: «Era forse l’eco lontana, conservata nel ricordo, della terrazza di Algeri dove andava in triciclo da bambino. Quel grande cielo, nel quale a volte risuonavano gli spari. Ma io preferivo stare in basso. Sulla terraferma. Ricordo quello slancio, che solo dopo mi è sembrato sospetto, quel desiderio sempre più ossessivo».
Federica Merlo
Newsletter 40 - Maggio 2023ChiudiLeggi la recensione
- V13
Emmanuel Carrère
Adelphi, Milano, 2023Emmanuel Carrère torna in libreria con V13, reportage narrativo che ha per argomento il processo per gli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015 (fuori dal e nel Teatro Bataclan e allo Stade de France). Il libro, a onor del vero, raccoglie e amplia contributi già comparsi a puntate su alcuni quotidiani europei (in Italia su Robinson de La Repubblica).
Carrère in V13 racconta in prima persona quanto è accaduto per molti mesi – tra il 2021 e il 2022 – nell’aula dell’Ile de la Cité, allestita appositamente per accogliere il gran numero di persone coinvolte in quello che possiamo definire, senza ombra di dubbio, uno dei processi più importanti della recente storia francese ed europea.
Per i Carrèriani (Carrère è forse uno dei pochi provenienti dal mondo letterario che può vantarsi di essere diventato negli anni una vera e propria star!), siamo di fronte a qualcosa di diverso rispetto a quanto lo scrittore parigino ci aveva abituato con le sue ultime pubblicazioni (Vite che non sono la mia o Yoga, solo per fare due esempi, quest’ultimo, tra l’altro, recensito in «Sullo Scaffale». In V13, infatti, Carrère si allontana da quella narrazione autofinzionale del sé che l’ha reso famoso, per dare voce agli altri: vittime, attentatori e legali presenti nelle varie udienze. Il risultato però, nonostante questo cambio di rotta è sempre eccellente, sia dal punto di vista narrativo – la sua prosa è straordinaria – sia dal punto di vista contenutistico, soprattutto per quanto riguarda la prima parte, nella quale i protagonisti sono i parenti delle vittime.Che dire di più… questo V13 è un libro davvero tosto (come d’altronde lo è stato anche La traversata di Philippe Lançon che parlava dell’attentato a Charlie Hebdo), che ci fa rivivere scene strazianti e indicibili sofferenze (quelle dei genitori e dei compagni delle vittime) e ci mette di fronte, senza filtri, al male di cui gli esseri umani sono capaci.
Perché leggerlo? Perché nonostante questo grande, enorme male, Carrère riesce a dimostrarci come si possa comunque trovare del bene. Molto bella è, a tal proposito, una frase di Simon Weil citata nel libro: «Il male immaginario è romantico, romanzesco, vario; il male reale incolore, desertico, noioso. Il bene immaginario è noioso; il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante»
Una citazione dal libro: «La mattina del 14 novembre 2015 all’obitorio due vittime sono state confuse. I genitori di una hanno creduto che la figlia fosse morta mentre era viva, quelli dell’altra hanno avuto la folle speranza che fosse viva mentre era morta. Chiamato al banco dei testimoni, il direttore dell’obitorio si giustifica: non si erano mai trovati a gestire una situazione del genere, l’arrivo in poche ore di “centoventitré corpi interi e diciassette brandelli di corpi”».
Federica Merlo
Newsletter 40 - Maggio 2023 ...Emmanuel Carrère torna in libreria con V13, reportage narrativo che ha per argomento il processo per gli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015 (fuori dal e nel Teatro Bataclan e allo Stade de France). Il libro, a onor del vero, raccoglie e amplia contributi già comparsi a puntate su alcuni quotidiani europei (in Italia su Robinson de La Repubblica).
Carrère in V13 racconta in prima persona quanto è accaduto per molti mesi – tra il 2021 e il 2022 – nell’aula dell’Ile de la Cité, allestita appositamente per accogliere il gran numero di persone coinvolte in quello che possiamo definire, senza ombra di dubbio, uno dei processi più importanti della recente storia francese ed europea.
Per i Carrèriani (Carrère è forse uno dei pochi provenienti dal mondo letterario che può vantarsi di essere diventato negli anni una vera e propria star!), siamo di fronte a qualcosa di diverso rispetto a quanto lo scrittore parigino ci aveva abituato con le sue ultime pubblicazioni (Vite che non sono la mia o Yoga, solo per fare due esempi, quest’ultimo, tra l’altro, recensito in «Sullo Scaffale». In V13, infatti, Carrère si allontana da quella narrazione autofinzionale del sé che l’ha reso famoso, per dare voce agli altri: vittime, attentatori e legali presenti nelle varie udienze. Il risultato però, nonostante questo cambio di rotta è sempre eccellente, sia dal punto di vista narrativo – la sua prosa è straordinaria – sia dal punto di vista contenutistico, soprattutto per quanto riguarda la prima parte, nella quale i protagonisti sono i parenti delle vittime.Che dire di più… questo V13 è un libro davvero tosto (come d’altronde lo è stato anche La traversata di Philippe Lançon che parlava dell’attentato a Charlie Hebdo), che ci fa rivivere scene strazianti e indicibili sofferenze (quelle dei genitori e dei compagni delle vittime) e ci mette di fronte, senza filtri, al male di cui gli esseri umani sono capaci.
Perché leggerlo? Perché nonostante questo grande, enorme male, Carrère riesce a dimostrarci come si possa comunque trovare del bene. Molto bella è, a tal proposito, una frase di Simon Weil citata nel libro: «Il male immaginario è romantico, romanzesco, vario; il male reale incolore, desertico, noioso. Il bene immaginario è noioso; il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante»
Una citazione dal libro: «La mattina del 14 novembre 2015 all’obitorio due vittime sono state confuse. I genitori di una hanno creduto che la figlia fosse morta mentre era viva, quelli dell’altra hanno avuto la folle speranza che fosse viva mentre era morta. Chiamato al banco dei testimoni, il direttore dell’obitorio si giustifica: non si erano mai trovati a gestire una situazione del genere, l’arrivo in poche ore di “centoventitré corpi interi e diciassette brandelli di corpi”».
Federica Merlo
Newsletter 40 - Maggio 2023ChiudiLeggi la recensione
- Abbassa il cielo e scendi
Giorgio Boatti
Mondadori, Milano, 2022Giorgio Boatti è nato in un paese della Lomellina, al confine tra Lombardia e Piemonte, dove tutt’ora risiede e, prima di esordire con il romanzo autobiografico Abbassa il cielo e scendi, ha pubblicato parecchi saggi di carattere storico contemporaneo che vi invito a scoprire qui.
Di Abbassa il cielo e scendi, la scrittrice e scout letteraria Cristina De Stefano, ha detto: «Per parlare della follia ci vuole un poeta. Per raccontare il tempo perduto ci vuole uno storico. Giorgio Boatti è tutte e due le cose e lo dimostra in questo straordinario romanzo dove tutto è vero». Mai strillo poteva essere più azzeccato e preciso nel descrivere la doppia natura di questo libro. Da una parte, infatti, Boatti racconta in prima persona il suo rapporto con il fratellone Bruno che, dall’età del servizio militare, inizia a manifestare i sintomi di una grave malattia mentale, la schizofrenia. Dall’altra, attingendo al suo bagaglio di giornalista e saggista, grande conoscitore del panorama socio-politico italiano del «Secolo Breve», lo scrittore inserisce questa sua vicenda personale in un contesto più ampio, che gli permette di parlare delle famiglie che faticavano ad arrivare a fine mese per far studiare i figli, che quando capitava una malattia la tenevano nascosta per pudore e vergogna e di tutti coloro che sono stati testimoni delle grandi rivoluzioni (la legge Basaglia, per citarne soltanto una, che nel 1978 sanciva la chiusura dei manicomi) e, purtroppo, pure del loro tradimento.
Se i grandi romanzi – ed è qui che l’arte esercita la sua funzione politica – ci fanno riflettere, in questo Abbassa il cielo e scendi, che grande romanzo lo è dalla prima riga ai ringraziamenti (a proposito, andateveli a leggere!), ci sono parole sul «prendersi cura» la cui intensità, alimentata dall’esperienza personale dell’autore, si trasmette in maniera così potente al lettore che, più di tanti testi scientifici, sono in grado di farci capire cosa sono le Medical Humanities.
Perché leggerlo? Perché, una volta letto il libro, avrete anche la possibilità di ascoltare l’autore. Giorgio Boatti è stato invitato il 6 aprile 2023 dalla Casa della Letteratura per la Svizzera Italiana a presentare a Lugano Abassa il cielo e scendi. Colgo l’occasione per ringraziare il presidente della Casa della Letteratura, il poeta Fabiano Alborghetti, per avermi dato l’opportunità di moderare quell’incontro e vi suggerisco caldamente di consultare il programma dei loro prossimi, interessantissimi, eventi.
Una citazione dal libro: «Ed è un peccato. Perché magari tra mezzo secolo oppure oltre ancora, quando sotto quel tetto non abiteranno più dolore sofferenza, questa vetrata infranta e insanguinata aiuterebbe a capire qualcosa della pazzia e del suo infrangersi sulla fragilità umana; a comprendere, in un baleno, quanto siano vicini alle vite di ognuno di noi i suoi margini, e taglienti, nei confronti delle nostre arroganti certezze, i suoi bordi».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 39 - Aprile 2023...
Giorgio Boatti è nato in un paese della Lomellina, al confine tra Lombardia e Piemonte, dove tutt’ora risiede e, prima di esordire con il romanzo autobiografico Abbassa il cielo e scendi, ha pubblicato parecchi saggi di carattere storico contemporaneo che vi invito a scoprire qui.
Di Abbassa il cielo e scendi, la scrittrice e scout letteraria Cristina De Stefano, ha detto: «Per parlare della follia ci vuole un poeta. Per raccontare il tempo perduto ci vuole uno storico. Giorgio Boatti è tutte e due le cose e lo dimostra in questo straordinario romanzo dove tutto è vero». Mai strillo poteva essere più azzeccato e preciso nel descrivere la doppia natura di questo libro. Da una parte, infatti, Boatti racconta in prima persona il suo rapporto con il fratellone Bruno che, dall’età del servizio militare, inizia a manifestare i sintomi di una grave malattia mentale, la schizofrenia. Dall’altra, attingendo al suo bagaglio di giornalista e saggista, grande conoscitore del panorama socio-politico italiano del «Secolo Breve», lo scrittore inserisce questa sua vicenda personale in un contesto più ampio, che gli permette di parlare delle famiglie che faticavano ad arrivare a fine mese per far studiare i figli, che quando capitava una malattia la tenevano nascosta per pudore e vergogna e di tutti coloro che sono stati testimoni delle grandi rivoluzioni (la legge Basaglia, per citarne soltanto una, che nel 1978 sanciva la chiusura dei manicomi) e, purtroppo, pure del loro tradimento.
Se i grandi romanzi – ed è qui che l’arte esercita la sua funzione politica – ci fanno riflettere, in questo Abbassa il cielo e scendi, che grande romanzo lo è dalla prima riga ai ringraziamenti (a proposito, andateveli a leggere!), ci sono parole sul «prendersi cura» la cui intensità, alimentata dall’esperienza personale dell’autore, si trasmette in maniera così potente al lettore che, più di tanti testi scientifici, sono in grado di farci capire cosa sono le Medical Humanities.
Perché leggerlo? Perché, una volta letto il libro, avrete anche la possibilità di ascoltare l’autore. Giorgio Boatti è stato invitato il 6 aprile 2023 dalla Casa della Letteratura per la Svizzera Italiana a presentare a Lugano Abassa il cielo e scendi. Colgo l’occasione per ringraziare il presidente della Casa della Letteratura, il poeta Fabiano Alborghetti, per avermi dato l’opportunità di moderare quell’incontro e vi suggerisco caldamente di consultare il programma dei loro prossimi, interessantissimi, eventi.
Una citazione dal libro: «Ed è un peccato. Perché magari tra mezzo secolo oppure oltre ancora, quando sotto quel tetto non abiteranno più dolore sofferenza, questa vetrata infranta e insanguinata aiuterebbe a capire qualcosa della pazzia e del suo infrangersi sulla fragilità umana; a comprendere, in un baleno, quanto siano vicini alle vite di ognuno di noi i suoi margini, e taglienti, nei confronti delle nostre arroganti certezze, i suoi bordi».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 39 - Aprile 2023ChiudiLeggi la recensione
- Lapvona
Ottessa Moshfegh
Feltrinelli, Milano, 2023Attualmente, tolto alcune rare eccezioni, tra cui Carmen Maria Machado e Joshua Cohen, già recensiti in Sullo Scaffale. la letteratura «made in USA» non sta brillando per fantasia e sperimentazione. Tuttavia, c’è un’altra autrice, Ottessa Moshfegh (padre iraniano e madre croata, ma americanissima, natia di Boston) che negli ultimi anni è stata in grado, sin dal suo esordio Eileen (di cui a breve uscirà pure l’adattamento cinematografico) di giocare una partita sé.
Ma arriviamo al suo ultimo romanzo, dallo strano titolo Lapvona. Ebbene sì, anche questa volta Moshfegh ce l’ha fatta a far dire ai suoi lettori «ma cosa diavolo?!». Questo libro, infatti, appena uscito per Feltrinelli (traduzione di Silvia Roti Sperti), è l’ennesima dimostrazione che, se si ha voglia di rischiare e il talento per farlo, si può, ancora oggi, proporre qualcosa di diverso dal resto dei romanzi (troppi e tutti simili!) che si trovano sugli scaffali «novità» delle librerie.
Ma di cosa stiamo parlando? Allora, Lapvona è, formalmente, un romanzo storico ambientato nel medioevo. Però, come ci ha già abituato nelle precedenti opere, la scrittrice americana anche qui destruttura il genere, liberandolo da riferimenti di luogo (Lapvona, che è il nome del paese immaginario dove è ambienta la vicenda, non viene mai detto in quale parte del mondo si trova) e tempo (non ci sono anni, date… ma solo cinque stagioni, da primavera a primavera) ma lasciando alcune convenzioni tipiche tra cui i simbolismi biblici, i signorotti ricchi che sfruttano e maltrattano i sudditi, le streghe e un certo gusto per il grottesco che in alcuni casi arriva persino a tingersi di tinte orrorifiche.
Alcuni lettori potrebbero trovare in Lapvona una certa critica alla società contemporanea e persino alcuni spunti per innescare un dibattito sia etico che religioso, altri (e io forse sto con questi ultimi, considerando che, anche ascoltando alcune belle interviste che si trovano on line, l’autrice non dichiara mai in maniera esplicita queste intenzioni) si godranno semplicemente una bella fiaba sui generis, con scene che paiono uscite direttamente dai quadri di Hieronimus Bosch o da certi film di Dario Argento e alcuni plot twist che danno parecchio gusto alla trama… entrambi, però, a libro terminato, rimarranno un po’ stupiti, un po’ disorientati, ma sicuramente consapevoli e felici di essersi letti qualcosa di particolare e dall’alto contenuto artistico. In fondo, non dimentichiamolo, la letteratura dovrebbe essere, prima di tutto, questa roba qui.Perché leggerlo?
Per scoprire una delle scrittrici più interessanti dell’attuale panorama letterario internazionale. Ah, vi consiglio caldamente di non farvi scappare anche il suo più celebre Il mio anno di riposo e oblio, (sempre edito da Feltrinelli e ora anche in edizione economica)Una citazione dal libro:
«Quando chiedeva consiglio agli uccelli, quelli rispondevano che non sapevano nulla dell’amore, che l’amore era un difetto propriamente umano che Dio aveva creato per controbilanciare il potere della avidità degli uomini».Federica Merlo
Newsletter 39 - Aprile 2023...
Attualmente, tolto alcune rare eccezioni, tra cui Carmen Maria Machado e Joshua Cohen, già recensiti in Sullo Scaffale. la letteratura «made in USA» non sta brillando per fantasia e sperimentazione. Tuttavia, c’è un’altra autrice, Ottessa Moshfegh (padre iraniano e madre croata, ma americanissima, natia di Boston) che negli ultimi anni è stata in grado, sin dal suo esordio Eileen (di cui a breve uscirà pure l’adattamento cinematografico) di giocare una partita sé.
Ma arriviamo al suo ultimo romanzo, dallo strano titolo Lapvona. Ebbene sì, anche questa volta Moshfegh ce l’ha fatta a far dire ai suoi lettori «ma cosa diavolo?!». Questo libro, infatti, appena uscito per Feltrinelli (traduzione di Silvia Roti Sperti), è l’ennesima dimostrazione che, se si ha voglia di rischiare e il talento per farlo, si può, ancora oggi, proporre qualcosa di diverso dal resto dei romanzi (troppi e tutti simili!) che si trovano sugli scaffali «novità» delle librerie.
Ma di cosa stiamo parlando? Allora, Lapvona è, formalmente, un romanzo storico ambientato nel medioevo. Però, come ci ha già abituato nelle precedenti opere, la scrittrice americana anche qui destruttura il genere, liberandolo da riferimenti di luogo (Lapvona, che è il nome del paese immaginario dove è ambienta la vicenda, non viene mai detto in quale parte del mondo si trova) e tempo (non ci sono anni, date… ma solo cinque stagioni, da primavera a primavera) ma lasciando alcune convenzioni tipiche tra cui i simbolismi biblici, i signorotti ricchi che sfruttano e maltrattano i sudditi, le streghe e un certo gusto per il grottesco che in alcuni casi arriva persino a tingersi di tinte orrorifiche.
Alcuni lettori potrebbero trovare in Lapvona una certa critica alla società contemporanea e persino alcuni spunti per innescare un dibattito sia etico che religioso, altri (e io forse sto con questi ultimi, considerando che, anche ascoltando alcune belle interviste che si trovano on line, l’autrice non dichiara mai in maniera esplicita queste intenzioni) si godranno semplicemente una bella fiaba sui generis, con scene che paiono uscite direttamente dai quadri di Hieronimus Bosch o da certi film di Dario Argento e alcuni plot twist che danno parecchio gusto alla trama… entrambi, però, a libro terminato, rimarranno un po’ stupiti, un po’ disorientati, ma sicuramente consapevoli e felici di essersi letti qualcosa di particolare e dall’alto contenuto artistico. In fondo, non dimentichiamolo, la letteratura dovrebbe essere, prima di tutto, questa roba qui.Perché leggerlo?
Per scoprire una delle scrittrici più interessanti dell’attuale panorama letterario internazionale. Ah, vi consiglio caldamente di non farvi scappare anche il suo più celebre Il mio anno di riposo e oblio, (sempre edito da Feltrinelli e ora anche in edizione economica)Una citazione dal libro:
«Quando chiedeva consiglio agli uccelli, quelli rispondevano che non sapevano nulla dell’amore, che l’amore era un difetto propriamente umano che Dio aveva creato per controbilanciare il potere della avidità degli uomini».Federica Merlo
Newsletter 39 - Aprile 2023ChiudiLeggi la recensione
- Shock
Carlo Patriarca
Neri Pozza, Vicenza, 2022Carlo Patriarca, medico anatomopatologo e scrittore, decide, in questo suo terzo romanzo, Shock, di parlare di Ugo Cerletti, neurologo italiano nato negli anni settata del XIX secolo e inventore della terapia elettroconvulsivante – più nota con il termine di elettroshock.
Bella e interessante è, in particolare, la prospettiva con cui sceglie di trattare la figura – difficile e sin qui colpevolmente dimenticata – di Cerletti e il percorso di vita che ha condotto questo medico, nel «secolo breve» (Cerletti ha vissuto entrambe le guerre mondiali) alle sperimentazioni dell’elettroshock sugli animali per poi arrivare ai primi trattamenti sui pazienti. Lo stesso Patriarca, che ho avuto l’onore di ospitare a «Gli scrittori e la malattia» (qui recuperate la serata) in quell’occasione ha detto: «ho deciso di raccontare questa storia, attraverso gli occhi un po’ devoti di un suo assistente come “antidoto” alla terapia elettroconvulsivante; vedere questa figura attraverso gli occhi di chi non ha per pregiudizio un atteggiamento critico – un allievo nei confronti del maestro». Bello è anche il fatto che il legame tra i due – senza svelare troppo – vada al di là delle corsie e dei luoghi più disparati e assurdi in cui si facevano ai tempi le prime pionieristiche ricerche, tramite la figura della madre dell’allievo e del fratello di questo, Giovanni.
Patriarca, mischiando la realtà (la documentatissima vita di Cerletti) alla fantasia (l’allievo e la sua famiglia sono invenzione dello scrittore) ha creato un piccolo gioello – piccolo solo perché si legge tutto d’un fiato, in un pomeriggio, volendo – che ci riporta indietro negli anni del boom delle scoperte nella medicina, ci fa conoscere figure storiche che hanno creato alcune delle basi sulle quali si fonda la moderna neurologia e soprattutto, lascia al lettore il compito di farsi una propria opinione anche quando gli argomenti diventano più controversi.Perché leggerlo? Perché, oltre a essere un bellissimo romanzo storico, questo libro ci invita – grazie agli elementi forniti dall’accurata ricerca di Patriarca – a contestualizzare e a capire, senza facili entusiasmi, il come e il perché certe scoperte siano avvenute proprio in quegli anni.
Una citazione dal libro: «Ma era una terapia? Il paziente torna cosciente, si risveglia a scaglioni, allenta le mascelle, può parlare. Dopo pochi minuti si addormenta, dorme per qualche ora e poi si risveglia ristorato. Era una terapia? La metafora bellica andava alla grande, ma in medicina è sempre stato così. Che si tratti di oncologia, di pandemie o di psichiatria, i medici accerchiano, colpiscono su più lati, combattono finché la malattia non ha la faccia nella polvere».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 38 - Marzo 2023...
Carlo Patriarca, medico anatomopatologo e scrittore, decide, in questo suo terzo romanzo, Shock, di parlare di Ugo Cerletti, neurologo italiano nato negli anni settata del XIX secolo e inventore della terapia elettroconvulsivante – più nota con il termine di elettroshock.
Bella e interessante è, in particolare, la prospettiva con cui sceglie di trattare la figura – difficile e sin qui colpevolmente dimenticata – di Cerletti e il percorso di vita che ha condotto questo medico, nel «secolo breve» (Cerletti ha vissuto entrambe le guerre mondiali) alle sperimentazioni dell’elettroshock sugli animali per poi arrivare ai primi trattamenti sui pazienti. Lo stesso Patriarca, che ho avuto l’onore di ospitare a «Gli scrittori e la malattia» (qui recuperate la serata) in quell’occasione ha detto: «ho deciso di raccontare questa storia, attraverso gli occhi un po’ devoti di un suo assistente come “antidoto” alla terapia elettroconvulsivante; vedere questa figura attraverso gli occhi di chi non ha per pregiudizio un atteggiamento critico – un allievo nei confronti del maestro». Bello è anche il fatto che il legame tra i due – senza svelare troppo – vada al di là delle corsie e dei luoghi più disparati e assurdi in cui si facevano ai tempi le prime pionieristiche ricerche, tramite la figura della madre dell’allievo e del fratello di questo, Giovanni.
Patriarca, mischiando la realtà (la documentatissima vita di Cerletti) alla fantasia (l’allievo e la sua famiglia sono invenzione dello scrittore) ha creato un piccolo gioello – piccolo solo perché si legge tutto d’un fiato, in un pomeriggio, volendo – che ci riporta indietro negli anni del boom delle scoperte nella medicina, ci fa conoscere figure storiche che hanno creato alcune delle basi sulle quali si fonda la moderna neurologia e soprattutto, lascia al lettore il compito di farsi una propria opinione anche quando gli argomenti diventano più controversi.Perché leggerlo? Perché, oltre a essere un bellissimo romanzo storico, questo libro ci invita – grazie agli elementi forniti dall’accurata ricerca di Patriarca – a contestualizzare e a capire, senza facili entusiasmi, il come e il perché certe scoperte siano avvenute proprio in quegli anni.
Una citazione dal libro: «Ma era una terapia? Il paziente torna cosciente, si risveglia a scaglioni, allenta le mascelle, può parlare. Dopo pochi minuti si addormenta, dorme per qualche ora e poi si risveglia ristorato. Era una terapia? La metafora bellica andava alla grande, ma in medicina è sempre stato così. Che si tratti di oncologia, di pandemie o di psichiatria, i medici accerchiano, colpiscono su più lati, combattono finché la malattia non ha la faccia nella polvere».
Nicolò S. Centemero
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- Il paradosso della sopravvivenza
Giorgio Falco
Einaudi, Torino, 2023Ogni volta che Giorgio Falco, scrittore italiano tra i più talentuosi sulla piazza, pubblica un romanzo, è per me una festa. L’ultima uscita datava fine 2020, il titolo era Flashover e parlava dei responsabili dell’incendio al teatro La Fenice di Venezia. Una bomba, bellissimo!
A conferma della grande capacità di Falco d’indagare l’umano anche nelle sue forme più abiette e perverse arriva quest’anno, sempre nella prestigiosa collana Super Coralli di Einaudi, Il paradosso della sopravvivenza. Il libro ha per protagonista Federico, detto Fede, o meglio il «ciccione», ragazzo di Pratonovo, paese immaginario del Trentino, laureato in storia e con chiare difficoltà di relazione con il cibo, con l’altro sesso e sul lavoro. Se proprio quest’ultimo è sempre stato uno dei temi portanti della narrativa di Falco, in questo caso, seppur presente (le pagine che descrivono il periodo trascorso da Fede a taggare video pornografici per una società informatica descrivono bene quello che qualche anno dopo, ai giorni nostri, sarebbe diventato il fenomeno della pornografia on-line), in questo caso è anche e soprattutto il tema del corpo che domina sugli altri. Giulia, bella e ricca ragazza di Pratonovo, che usa la sua avvenenza per maltrattare Fede facendogli mangiare in maniera compulsiva quello che lei, ai limiti dell’anoressia, non può e non vuol mangiare. Barbara, detta «Barbie cassonetto», ragazza obesa che Fede incontra a Milano, dove si era trasferito per sfuggire a Giulia e al paese, con la quale intraprende una relazione che fallisce in breve tempo per un lapsus legato al nomignolo affibbiatole dai loro colleghi. Granit, uno di questi che a causa di un tuffo resta invalido e diventa il termine di paragone per la disabilità (l’obesità lo è?) di Fede… «La condizione di ciccione è invalidante quasi come un incidente, ma Fede non ha avuto alcun trauma improvviso, soltanto l’accumulo dei giorni, la vita. Non basta questo? si chiede mentre apre il frigorifero l’anta cigola sopportando il peso del tempo di fabbricazione, di altri inquilini finiti chissà dove».
Il poeta Gianni Montieri scrive a proposito del Il paradosso della sopravvivenza in un bell’articolo comparso su Doppiozero che questo è «un romanzo che nasce dalla capacità di Giorgio Falco (evidente in ogni libro che ha scritto) di osservare la realtà e le cose per quello che sono, per come appaiono, per come avrebbero potuto essere. Di andare a fondo alle cose» e ha ragione da vendere. Falco, con la sua incredibile scrittura, sempre riconoscibile nei toni e nelle atmosfere che le sue parole sanno evocare – qui c’è tanta malinconia e solitudine – anche questa volta riesce a dirci, meglio di quanto riusciamo a fare noi stessi, quello che abbiamo intorno, quello che ci accade, quello che non ci piace, quello che non vorremo.Perché leggerlo? Perché la letteratura, così come il cinema (faccio notare che questo è anche l’anno in cui Brendan Fraser ha vinto un oscar meritatissimo per aver interpretato Charlie il superobeso protagonista in The Whale del regista Darren Aronfsky) e le arti in generale (Medical Humanities!), sono capaci di esplorare i temi che trattano con una profondità così umana che la scienza non potrà mai raggiungere. E questo romanzo ne è il chiaro esempio.
Una citazione dal libro: «È la fine di un altro inverno. Ieri c’è stata una specie di nevicata, la temperatura era al di sopra della media stagionale: troppo alta per nevicare davvero. È caduta una neve zuppa, fiocchi inconsistenti disorientavano lo sguardo trasformandolo in un’occhiata acquosa, malinconica, votata al pianto. I fiocchi attecchivano sul terreno, e subito si scioglievano con uno scricchiolio come quando, con le dita, si schiacciano i pidocchi».
Federica Merlo
Newsletter 38 - Marzo 2023...
Ogni volta che Giorgio Falco, scrittore italiano tra i più talentuosi sulla piazza, pubblica un romanzo, è per me una festa. L’ultima uscita datava fine 2020, il titolo era Flashover e parlava dei responsabili dell’incendio al teatro La Fenice di Venezia. Una bomba, bellissimo!
A conferma della grande capacità di Falco d’indagare l’umano anche nelle sue forme più abiette e perverse arriva quest’anno, sempre nella prestigiosa collana Super Coralli di Einaudi, Il paradosso della sopravvivenza. Il libro ha per protagonista Federico, detto Fede, o meglio il «ciccione», ragazzo di Pratonovo, paese immaginario del Trentino, laureato in storia e con chiare difficoltà di relazione con il cibo, con l’altro sesso e sul lavoro. Se proprio quest’ultimo è sempre stato uno dei temi portanti della narrativa di Falco, in questo caso, seppur presente (le pagine che descrivono il periodo trascorso da Fede a taggare video pornografici per una società informatica descrivono bene quello che qualche anno dopo, ai giorni nostri, sarebbe diventato il fenomeno della pornografia on-line), in questo caso è anche e soprattutto il tema del corpo che domina sugli altri. Giulia, bella e ricca ragazza di Pratonovo, che usa la sua avvenenza per maltrattare Fede facendogli mangiare in maniera compulsiva quello che lei, ai limiti dell’anoressia, non può e non vuol mangiare. Barbara, detta «Barbie cassonetto», ragazza obesa che Fede incontra a Milano, dove si era trasferito per sfuggire a Giulia e al paese, con la quale intraprende una relazione che fallisce in breve tempo per un lapsus legato al nomignolo affibbiatole dai loro colleghi. Granit, uno di questi che a causa di un tuffo resta invalido e diventa il termine di paragone per la disabilità (l’obesità lo è?) di Fede… «La condizione di ciccione è invalidante quasi come un incidente, ma Fede non ha avuto alcun trauma improvviso, soltanto l’accumulo dei giorni, la vita. Non basta questo? si chiede mentre apre il frigorifero l’anta cigola sopportando il peso del tempo di fabbricazione, di altri inquilini finiti chissà dove».
Il poeta Gianni Montieri scrive a proposito del Il paradosso della sopravvivenza in un bell’articolo comparso su Doppiozero che questo è «un romanzo che nasce dalla capacità di Giorgio Falco (evidente in ogni libro che ha scritto) di osservare la realtà e le cose per quello che sono, per come appaiono, per come avrebbero potuto essere. Di andare a fondo alle cose» e ha ragione da vendere. Falco, con la sua incredibile scrittura, sempre riconoscibile nei toni e nelle atmosfere che le sue parole sanno evocare – qui c’è tanta malinconia e solitudine – anche questa volta riesce a dirci, meglio di quanto riusciamo a fare noi stessi, quello che abbiamo intorno, quello che ci accade, quello che non ci piace, quello che non vorremo.Perché leggerlo? Perché la letteratura, così come il cinema (faccio notare che questo è anche l’anno in cui Brendan Fraser ha vinto un oscar meritatissimo per aver interpretato Charlie il superobeso protagonista in The Whale del regista Darren Aronfsky) e le arti in generale (Medical Humanities!), sono capaci di esplorare i temi che trattano con una profondità così umana che la scienza non potrà mai raggiungere. E questo romanzo ne è il chiaro esempio.
Una citazione dal libro: «È la fine di un altro inverno. Ieri c’è stata una specie di nevicata, la temperatura era al di sopra della media stagionale: troppo alta per nevicare davvero. È caduta una neve zuppa, fiocchi inconsistenti disorientavano lo sguardo trasformandolo in un’occhiata acquosa, malinconica, votata al pianto. I fiocchi attecchivano sul terreno, e subito si scioglievano con uno scricchiolio come quando, con le dita, si schiacciano i pidocchi».
Federica Merlo
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- Nuoto libero
Julie Otsuka
Bollati Boringhieri, Milano, 2022Da sempre la Fondazione Sasso Corbaro si occupa del tema delle demenze. Nel settembre dello scorso anno, ad esempio, si è parlato di uno scrittore italiano, Daniele Del Giudice – un grande di fine Novecento – che purtroppo ne ha sofferto (qui potete recuperare la serata). Un’altra occasione invece, ci sarà a breve, il 22 febbraio alle 20.30 on-line, all’interno del ciclo «Gli scrittori e la malattia» insieme a Beppe Sebaste e al suo romanzo autobiografico Una vita dolce (già recensito in «Sullo scaffale»).
Proprio la demenza di Alice, madre della narratrice, è la protagonista di Nuoto libero, breve e fulminante romanzo di Julie Otsuka, scrittrice americana di chiare origini nipponiche. Il libro, scritto quasi interamente in prima persona plurale (scelta non comune e già per questo degna di nota) narra un rapporto madre-figlia di intimità e rimpianto. Otsuka, che utilizza uno stile minimale e ricorre spesso a elenchi di dettagli capaci di trasmettere la semplicità del quotidiano, decide di strutturare il romanzo in due parti. La prima, dedicata a una piscina e ai suoi nuotatori habitué, tra cui anche Alice, contraddistinti dalle loro peculiari caratteristiche e idiosincrasie che fan sorridere il lettore. La seconda, nella quale protagonista diventa la malattia degenerativa che intacca ricordi e funzioni e rende Alice «persona con cui è difficilissimo vivere» costringendola a trasferirsi al Bellavista «residenza a lungo termine for profit per disturbi della memoria». Senza svelare troppi dettagli di trama che rovinerebbero il gusto della lettura di un romanzo che si termina in poche ore, ho trovato molto interessante il ricorso che Otsuka fa alla «crepa», concreta all’inizio quando compare sul fondale della piscina e poi – a legare prima e seconda parte – metafora di quanto accade in un cervello che si ammala.
Perché leggerlo? Perché Nuoto libero è un ottimo esempio di quella letteratura che parla di malattia, capace di far riflettere sulle domande, umanissime, che ci facciamo noi esseri umani: cosa diventiamo senza i nostri ricordi? Cosa facciamo quando non siamo più in grado «di fare»? Come scendiamo a patti col fatto che i nostri cari si ammalano e non sappiamo curarli?
Una citazione dal libro: «Non ricorda come si è fatta quei lividi sulle braccia, né di essere uscita a passeggio con te questa mattina. Non ricorda di essersi chinata, durante la passeggiata, per cogliere un fiore dal giardino di un vicino e infilarselo tra i capelli. Magari tuo padre mi bacerà, adesso. Non ricorda cos’ha mangiato ieri sera a cena, né quando ha preso la medicina. Non si ricorda di pettinarsi».
Federica Merlo
Newsletter 37 - Febbraio 2023...
Da sempre la Fondazione Sasso Corbaro si occupa del tema delle demenze. Nel settembre dello scorso anno, ad esempio, si è parlato di uno scrittore italiano, Daniele Del Giudice – un grande di fine Novecento – che purtroppo ne ha sofferto (qui potete recuperare la serata). Un’altra occasione invece, ci sarà a breve, il 22 febbraio alle 20.30 on-line, all’interno del ciclo «Gli scrittori e la malattia» insieme a Beppe Sebaste e al suo romanzo autobiografico Una vita dolce (già recensito in «Sullo scaffale»).
Proprio la demenza di Alice, madre della narratrice, è la protagonista di Nuoto libero, breve e fulminante romanzo di Julie Otsuka, scrittrice americana di chiare origini nipponiche. Il libro, scritto quasi interamente in prima persona plurale (scelta non comune e già per questo degna di nota) narra un rapporto madre-figlia di intimità e rimpianto. Otsuka, che utilizza uno stile minimale e ricorre spesso a elenchi di dettagli capaci di trasmettere la semplicità del quotidiano, decide di strutturare il romanzo in due parti. La prima, dedicata a una piscina e ai suoi nuotatori habitué, tra cui anche Alice, contraddistinti dalle loro peculiari caratteristiche e idiosincrasie che fan sorridere il lettore. La seconda, nella quale protagonista diventa la malattia degenerativa che intacca ricordi e funzioni e rende Alice «persona con cui è difficilissimo vivere» costringendola a trasferirsi al Bellavista «residenza a lungo termine for profit per disturbi della memoria». Senza svelare troppi dettagli di trama che rovinerebbero il gusto della lettura di un romanzo che si termina in poche ore, ho trovato molto interessante il ricorso che Otsuka fa alla «crepa», concreta all’inizio quando compare sul fondale della piscina e poi – a legare prima e seconda parte – metafora di quanto accade in un cervello che si ammala.
Perché leggerlo? Perché Nuoto libero è un ottimo esempio di quella letteratura che parla di malattia, capace di far riflettere sulle domande, umanissime, che ci facciamo noi esseri umani: cosa diventiamo senza i nostri ricordi? Cosa facciamo quando non siamo più in grado «di fare»? Come scendiamo a patti col fatto che i nostri cari si ammalano e non sappiamo curarli?
Una citazione dal libro: «Non ricorda come si è fatta quei lividi sulle braccia, né di essere uscita a passeggio con te questa mattina. Non ricorda di essersi chinata, durante la passeggiata, per cogliere un fiore dal giardino di un vicino e infilarselo tra i capelli. Magari tuo padre mi bacerà, adesso. Non ricorda cos’ha mangiato ieri sera a cena, né quando ha preso la medicina. Non si ricorda di pettinarsi».
Federica Merlo
Newsletter 37 - Febbraio 2023ChiudiLeggi la recensione