Sullo scaffale
Consigli di visione, spunti di riflessione, recensioni di film e libri raccolti nel Centro di documentazione della Fondazione Sasso Corbaro.
Recensioni
- Stella Maris
Cormac McCarthy
Einaudi, Torino, 2023Di recente abbiamo pubblicato la recensione de Il passeggero, nella quale avevo già accennato che l’ultimo progetto di McCarthy si sarebbe però completato solo a settembre di quest’anno, quando Einaudi avrebbe dato alle stampe il secondo elemento del dittico Il passeggero – Stella Maris.
Ça va sans dire, il 23 settembre mi sono fiondato in libreria e quella sera stessa e i due pomeriggi successivi son stati per me Stella Maris, solo ed esclusivamente Stella Maris.
In questo caso, paragonato a Il passeggero, che si contraddistingue per la sua struttura complessa, per il suo mutare forma e stile, per i dialoghi a tre-quattro personaggi e i salti temporali, Stella Maris è un libro diversissimo, più breve, fulminante, composto da sei capitoli tutti dedicati al dialogo tra Alicia (la sorella schizofrenica di Bobby Western, già co-protagonista ne Il passeggero) e il suo psichiatra, il dottor Cohen, all’interno dell’ospedale che ha per nome il titolo del libro.
Alicia, di sua spontanea volontà si presenta allo Stella Maris «in autobus e senza bagaglio» per farsi ricoverare; da quel momento iniziano le sei sedute, i sei dialoghi, il botta e risposta incalzante tra il medico e Alicia – botta e risposta la cui densità di contenuto e la cui alternanza di dramma e sarcasmo sono veicolate al lettore dalla grande capacità di scrittura di McCarthy, che qui, a mio parere, raggiunge il suo apice.
Raccontarvi di quello che i due personaggi si dicono sarebbe per me impossibile… mi fermo qui e alzo le mani. Mi rendo conto dello scarso servizio delle mie parole, ma non sarei minimamente in grado di riportare la finezza di pensiero (la genialità di Alicia è messa continuamente a confronto con il tentativo dello psichiatra di «starle dietro», di provare, senza grande successo, a «tenerle testa») e la mostruosità della sofferenza dovuta alla malattia psichiatrica, presenti in queste pagine.
Una recensione – questa, onestamente, non lo è – dovrebbe fornire elementi utili per capire se il libro faccia o meno per noi… io posso solo dirvi che ho la certezza che Il passeggero e Stella Maris (per me da considerarsi un romanzo unico) fa già parte di quella letteratura che a distanza di molti anni verrà ancora letta, riletta e straletta.Perché leggerlo? Perché chi teme il McCarthy che parla del West o il McCarthy del distopico La strada potrà provare ad innamorarsi del grande narratore americano partendo da questi due capolavori.
Una citazione dal libro:
«Molto probabilmente l’amore è di per sé un disturbo mentale.
È una battuta?
No.
Crede sia così?
Probabile. Forse no. A volte. La letteratura non è molto incoraggiante. L’esperienza nemmeno.
Mi sta dicendo che era innamorata di suo fratello?
Be’ da bravo psi crederà che l’incesto sia il modo per conquistare il cuore di una ragazza.
Ma non era incesto.
No. Solo desiderio.
Non vuole parlare di questo.
Gli affari di cuore hanno diritto a una certa riservatezza.
Va bene».Nicolò S. Centemero
Newsletter 45 - Ottobre 2023 ...Di recente abbiamo pubblicato la recensione de Il passeggero, nella quale avevo già accennato che l’ultimo progetto di McCarthy si sarebbe però completato solo a settembre di quest’anno, quando Einaudi avrebbe dato alle stampe il secondo elemento del dittico Il passeggero – Stella Maris.
Ça va sans dire, il 23 settembre mi sono fiondato in libreria e quella sera stessa e i due pomeriggi successivi son stati per me Stella Maris, solo ed esclusivamente Stella Maris.
In questo caso, paragonato a Il passeggero, che si contraddistingue per la sua struttura complessa, per il suo mutare forma e stile, per i dialoghi a tre-quattro personaggi e i salti temporali, Stella Maris è un libro diversissimo, più breve, fulminante, composto da sei capitoli tutti dedicati al dialogo tra Alicia (la sorella schizofrenica di Bobby Western, già co-protagonista ne Il passeggero) e il suo psichiatra, il dottor Cohen, all’interno dell’ospedale che ha per nome il titolo del libro.
Alicia, di sua spontanea volontà si presenta allo Stella Maris «in autobus e senza bagaglio» per farsi ricoverare; da quel momento iniziano le sei sedute, i sei dialoghi, il botta e risposta incalzante tra il medico e Alicia – botta e risposta la cui densità di contenuto e la cui alternanza di dramma e sarcasmo sono veicolate al lettore dalla grande capacità di scrittura di McCarthy, che qui, a mio parere, raggiunge il suo apice.
Raccontarvi di quello che i due personaggi si dicono sarebbe per me impossibile… mi fermo qui e alzo le mani. Mi rendo conto dello scarso servizio delle mie parole, ma non sarei minimamente in grado di riportare la finezza di pensiero (la genialità di Alicia è messa continuamente a confronto con il tentativo dello psichiatra di «starle dietro», di provare, senza grande successo, a «tenerle testa») e la mostruosità della sofferenza dovuta alla malattia psichiatrica, presenti in queste pagine.
Una recensione – questa, onestamente, non lo è – dovrebbe fornire elementi utili per capire se il libro faccia o meno per noi… io posso solo dirvi che ho la certezza che Il passeggero e Stella Maris (per me da considerarsi un romanzo unico) fa già parte di quella letteratura che a distanza di molti anni verrà ancora letta, riletta e straletta.Perché leggerlo? Perché chi teme il McCarthy che parla del West o il McCarthy del distopico La strada potrà provare ad innamorarsi del grande narratore americano partendo da questi due capolavori.
Una citazione dal libro:
«Molto probabilmente l’amore è di per sé un disturbo mentale.
È una battuta?
No.
Crede sia così?
Probabile. Forse no. A volte. La letteratura non è molto incoraggiante. L’esperienza nemmeno.
Mi sta dicendo che era innamorata di suo fratello?
Be’ da bravo psi crederà che l’incesto sia il modo per conquistare il cuore di una ragazza.
Ma non era incesto.
No. Solo desiderio.
Non vuole parlare di questo.
Gli affari di cuore hanno diritto a una certa riservatezza.
Va bene».Nicolò S. Centemero
Newsletter 45 - Ottobre 2023ChiudiLeggi la recensione
- La chiave di Berlino
Vincenzo Latronico
Einaudi, Torino, 2023Dopo Le Perfezioni – per me il miglior romanzo in lingua italiana uscito nel 2022 – Vincenzo Latronico, classe ’84, da Bompiani passa ai Supercoralli Einaudi e pubblica un memoir sulla sua vita e sulla vita degli expat a Berlino.
Prima ancora però di parlare de La chiave di Berlino, questo il titolo del libro appena uscito, lasciatemi spezzare una lancia in favore di una scelta interessante e riuscita, ovverosia quella di creare un dittico fiction/non-fiction, romanzo/memoir, i cui elementi (Le perfezioni e La chiave di Berlino), grazie ai temi comuni – la città tedesca e la generazione dei trentenni – instaurano tra loro un dialogo e si potenziano vicendevolmente, «chiudendo il cerchio» della efficacissima e sui generis indagine che Latronico fa su di sé e sui suoi coetanei, «fuggiti» come lui, per cercar fortuna, verso la città tedesca.
Arrivando ora al memoir, al suo interno leggerete della prima e della seconda volta che Latronico si ritrova, sempre «per caso», a vivere a Berlino (tutt’ora vive lì), degli assurdi spazi vuoti di questa metropoli, di chi ha compiuto «la fuga» per ragioni diverse e prima di lui, come lo scrittore Christopher Isherwood, dei raver e dell’importanza dei rave per definire Berlino, la sua libertà, la sua musica e i suoi giovani, del lavoro di critico d’arte contemporanea, e anche e soprattutto, di quello di scrittore.Perché leggerlo? Perché chi è più giovane di Latronico può analizzare meglio alcuni fenomeni che sta vivendo in pieno attualmente tra cui la gentrificazione di interi quartieri e la difficoltà di trovare casa nelle grandi città europee, il lavoro precario e l’instabilità di tutto – dalle relazioni al clima del nostro pianeta. Perché chi è più vecchio di Latronico potrebbe riflettere su alcune scelte fatte in passato, che lo rendono in parte responsabile di quanto narrato nel libro. Perché chi ha più o meno l’età di Latronico si ritroverà moltissimo ne La chiave di Berlino… e questo, ve lo dico, farà un po’ male, ma anche bene: aiuterà a capirci.
Una citazione dal libro: «Questo atteggiamento era strettamente dipendente dal presupposto, infantile e privilegiato, che le mie circostanze le potessi cambiare – che, appunto, la vita fosse una cosa che scegli.
Ma in quel momento – inizio del 2021, più vicino ai cinquant’anni che ai venti, finito per caso a Berlino senza alternative possibili né progetti futuri – c’era ben poco che potessi fare di diverso da ciò che facevo».Federica Merlo
Newsletter 44 - Settembre 2023 ...Dopo Le Perfezioni – per me il miglior romanzo in lingua italiana uscito nel 2022 – Vincenzo Latronico, classe ’84, da Bompiani passa ai Supercoralli Einaudi e pubblica un memoir sulla sua vita e sulla vita degli expat a Berlino.
Prima ancora però di parlare de La chiave di Berlino, questo il titolo del libro appena uscito, lasciatemi spezzare una lancia in favore di una scelta interessante e riuscita, ovverosia quella di creare un dittico fiction/non-fiction, romanzo/memoir, i cui elementi (Le perfezioni e La chiave di Berlino), grazie ai temi comuni – la città tedesca e la generazione dei trentenni – instaurano tra loro un dialogo e si potenziano vicendevolmente, «chiudendo il cerchio» della efficacissima e sui generis indagine che Latronico fa su di sé e sui suoi coetanei, «fuggiti» come lui, per cercar fortuna, verso la città tedesca.
Arrivando ora al memoir, al suo interno leggerete della prima e della seconda volta che Latronico si ritrova, sempre «per caso», a vivere a Berlino (tutt’ora vive lì), degli assurdi spazi vuoti di questa metropoli, di chi ha compiuto «la fuga» per ragioni diverse e prima di lui, come lo scrittore Christopher Isherwood, dei raver e dell’importanza dei rave per definire Berlino, la sua libertà, la sua musica e i suoi giovani, del lavoro di critico d’arte contemporanea, e anche e soprattutto, di quello di scrittore.Perché leggerlo? Perché chi è più giovane di Latronico può analizzare meglio alcuni fenomeni che sta vivendo in pieno attualmente tra cui la gentrificazione di interi quartieri e la difficoltà di trovare casa nelle grandi città europee, il lavoro precario e l’instabilità di tutto – dalle relazioni al clima del nostro pianeta. Perché chi è più vecchio di Latronico potrebbe riflettere su alcune scelte fatte in passato, che lo rendono in parte responsabile di quanto narrato nel libro. Perché chi ha più o meno l’età di Latronico si ritroverà moltissimo ne La chiave di Berlino… e questo, ve lo dico, farà un po’ male, ma anche bene: aiuterà a capirci.
Una citazione dal libro: «Questo atteggiamento era strettamente dipendente dal presupposto, infantile e privilegiato, che le mie circostanze le potessi cambiare – che, appunto, la vita fosse una cosa che scegli.
Ma in quel momento – inizio del 2021, più vicino ai cinquant’anni che ai venti, finito per caso a Berlino senza alternative possibili né progetti futuri – c’era ben poco che potessi fare di diverso da ciò che facevo».Federica Merlo
Newsletter 44 - Settembre 2023ChiudiLeggi la recensione
- La casa del mago
Emanuele Trevi
Ponte alle Grazie, Milano, 2023Il libro che si scrive dopo una tanto meritata quanto inattesa vittoria ad un premio importante (in Italia, IL più importante) come lo Strega è difficile almeno come il secondo «nella carriera di un artista», citando le parole di una famosa canzone. La casa del mago, ultimo lavoro di Emanuele Trevi, arrivato a due anni dallo splendido Due Vite (recensito qui), seppur a mio avviso non raggiunga le vette letterarie di questo illustre precedente – ed è forse anche normale, fisiologico – è un libro solidissimo e come tutti i libri di Trevi, molto pieno di Trevi: della sua vita, della sua sempre mirabile ed elegante prosa e, soprattutto, di quella sua caratteristica e personalissima visione del mondo (i suoi più assidui e fanatici lettori, come me d’altronde, so che hanno capito a cosa mi riferisco).
Ne La casa del mago lo scrittore romano decide di parlarci del padre, figura molto amata ma anche uomo particolare e «ingombrante» (papà Trevi, Mario, era un famosissimo psicanalista Junghiano) e del loro rapporto. Per farlo, coglie l’occasione di un trasloco (momento che sappiamo tutti bene quanto possa turbare la nostra psiche) proprio nella casa-studio medico del genitore, deceduto nel 2011.
Il risultato è un racconto «alla Trevi» – lo so, vi sembrerà che io stia creando un genere ma, fidatevi, la sua scrittura è davvero peculiare e molto riconoscibile – capace di trasmettere, usando spesso quel pizzico di ironia che alleggerisce e, qui in particolare, dove rispetto a Due vite la tematica è meno drammatica, strappa il sorriso, tutto l’amore e l’importanza che il padre ha avuto e tutt’ora ha nella formazione del figlio.Perché leggerlo? Foss’anche solo per leggere le descrizioni delle gite a Venezia del piccolo Emanuele col padre, grande appassionato d’arte, per andare a vedere la Biennale, sarebbe un’ottima ragione. Tuttavia, credo proprio che una volta iniziato sarà difficile non andare oltre e non portarlo, in breve tempo, a termine.
Una citazione dal libro: «La libertà alla fine della fiera è la cosa meno libera che esista al mondo. Perché noi non sappiamo mai, mai, quello che vogliamo. Per tutta la vita pensiamo di volere delle cose e invece ne vogliamo altre. Questa è la caratteristica fondamentale che ci distingue dagli altri animali, più ancora del riso e del linguaggio. E il non sapere esattamente ciò che si vuole deve essere per forza la conseguenza di un potente istinto di conservazione. Tanto è vero che nemmeno mio padre, nemmeno i più illustri guaritori della storia, avevano mai potuto mettere impunemente le mani sul meccanismo umano dell’inconsapevolezza: modifica disabilitata».
Federica Merlo
Newsletter 44 - Settembre 2023...
Il libro che si scrive dopo una tanto meritata quanto inattesa vittoria ad un premio importante (in Italia, IL più importante) come lo Strega è difficile almeno come il secondo «nella carriera di un artista», citando le parole di una famosa canzone. La casa del mago, ultimo lavoro di Emanuele Trevi, arrivato a due anni dallo splendido Due Vite (recensito qui), seppur a mio avviso non raggiunga le vette letterarie di questo illustre precedente – ed è forse anche normale, fisiologico – è un libro solidissimo e come tutti i libri di Trevi, molto pieno di Trevi: della sua vita, della sua sempre mirabile ed elegante prosa e, soprattutto, di quella sua caratteristica e personalissima visione del mondo (i suoi più assidui e fanatici lettori, come me d’altronde, so che hanno capito a cosa mi riferisco).
Ne La casa del mago lo scrittore romano decide di parlarci del padre, figura molto amata ma anche uomo particolare e «ingombrante» (papà Trevi, Mario, era un famosissimo psicanalista Junghiano) e del loro rapporto. Per farlo, coglie l’occasione di un trasloco (momento che sappiamo tutti bene quanto possa turbare la nostra psiche) proprio nella casa-studio medico del genitore, deceduto nel 2011.
Il risultato è un racconto «alla Trevi» – lo so, vi sembrerà che io stia creando un genere ma, fidatevi, la sua scrittura è davvero peculiare e molto riconoscibile – capace di trasmettere, usando spesso quel pizzico di ironia che alleggerisce e, qui in particolare, dove rispetto a Due vite la tematica è meno drammatica, strappa il sorriso, tutto l’amore e l’importanza che il padre ha avuto e tutt’ora ha nella formazione del figlio.Perché leggerlo? Foss’anche solo per leggere le descrizioni delle gite a Venezia del piccolo Emanuele col padre, grande appassionato d’arte, per andare a vedere la Biennale, sarebbe un’ottima ragione. Tuttavia, credo proprio che una volta iniziato sarà difficile non andare oltre e non portarlo, in breve tempo, a termine.
Una citazione dal libro: «La libertà alla fine della fiera è la cosa meno libera che esista al mondo. Perché noi non sappiamo mai, mai, quello che vogliamo. Per tutta la vita pensiamo di volere delle cose e invece ne vogliamo altre. Questa è la caratteristica fondamentale che ci distingue dagli altri animali, più ancora del riso e del linguaggio. E il non sapere esattamente ciò che si vuole deve essere per forza la conseguenza di un potente istinto di conservazione. Tanto è vero che nemmeno mio padre, nemmeno i più illustri guaritori della storia, avevano mai potuto mettere impunemente le mani sul meccanismo umano dell’inconsapevolezza: modifica disabilitata».
Federica Merlo
Newsletter 44 - Settembre 2023ChiudiLeggi la recensione
- Il tuffatore
Elena Stancanelli
La Nave di Teseo, Milano, 2022Elena Stancanelli, scrittrice e giornalista che fu anche ospite della Fondazione Sasso Corbaro durante la serata on-line dedicata a Daniele Del Giudice, nel 2022 ha pubblicato con La Nave di Teseo il suo ultimo libro, intitolato Il tuffatore (finalista al Premio Campiello). Si tratta di un ibrido letterario dove la biografia (dell’imprenditore e velista Raul Gardini) e l’autobiografia, si mischiano con quanto accadde in Italia tra gli anni 70 e i primi anni 90.
Composto da brevi capitoletti di 2-3 pagine, ognuno con il suo titolo (scelta interessante, che avevo già parecchio apprezzato in Yoga di Emmanuel Carrère – recensito in «Sullo scaffale» – il libro, in circa duecento pagine, racconta – traendo spunto dalle varie vicende e vicissitudini vissute dall’imprenditore Raul Gardini – ciò che per Stancanelli, figlia di una famiglia borghese, è stata la vita e la formazione in quell’Italia di fine secolo scorso, indiscutibilmente in mano ai soldi e al potere non solo di Gardini ma anche di Agnelli, Berlusconi, Andreotti, Craxi, Cuccia etc.
Al di là di questo, una delle cose che mi ha forse più colpito nel libro e che conferma che Il tuffatore non è affatto, come dicevo, una classica biografia, è il racconto lucido e straziante che Stancanelli fa della malattia della sua migliore amica, quando all’epoca erano entrambe ancora adolescenti e andavano a scuola insieme.Perché leggerlo? Per tre ragioni: scoprire alcuni interessanti retroscena della recente storia italiana che abbiamo già «sentito», ma i cui dettagli spesso ignoriamo; ricordarsi che dietro a certe decisioni dall’enorme impatto su moltissime persone ci sono singoli individui, con la loro brama, i loro dubbi, i loro sentimenti, le loro passioni… ; rendersi conto che all’interno della storia ci siamo comunque anche noi, come dimostra la vicenda personale, che rende questo libro un quasi-bildungsroman, della scrittrice Elena Stancanelli.
Una citazione dal libro: «Eravamo talmente piccole che quando è morta temevo di dimenticarla e mi pareva insopportabile. Per questo le scrivevo quelle lettere, ogni giorno. Ricordo molto bene la sensazione di resistenza, di cercare di stringere una materia volatile come i ricordi. Volevo tenerli stretti a me, uno accanto all’altro, come il bossoli nel gilet da caccia di mio padre. Anche quelli più brutti. Ed è finita così, che mi sono rimasti addosso specialmente quelli brutti. Le cose brutte sono più resistenti, scavano più a fondo».
Federica Merlo
Newsletter 43 - Agosto 2023 ...Elena Stancanelli, scrittrice e giornalista che fu anche ospite della Fondazione Sasso Corbaro durante la serata on-line dedicata a Daniele Del Giudice, nel 2022 ha pubblicato con La Nave di Teseo il suo ultimo libro, intitolato Il tuffatore (finalista al Premio Campiello). Si tratta di un ibrido letterario dove la biografia (dell’imprenditore e velista Raul Gardini) e l’autobiografia, si mischiano con quanto accadde in Italia tra gli anni 70 e i primi anni 90.
Composto da brevi capitoletti di 2-3 pagine, ognuno con il suo titolo (scelta interessante, che avevo già parecchio apprezzato in Yoga di Emmanuel Carrère – recensito in «Sullo scaffale» – il libro, in circa duecento pagine, racconta – traendo spunto dalle varie vicende e vicissitudini vissute dall’imprenditore Raul Gardini – ciò che per Stancanelli, figlia di una famiglia borghese, è stata la vita e la formazione in quell’Italia di fine secolo scorso, indiscutibilmente in mano ai soldi e al potere non solo di Gardini ma anche di Agnelli, Berlusconi, Andreotti, Craxi, Cuccia etc.
Al di là di questo, una delle cose che mi ha forse più colpito nel libro e che conferma che Il tuffatore non è affatto, come dicevo, una classica biografia, è il racconto lucido e straziante che Stancanelli fa della malattia della sua migliore amica, quando all’epoca erano entrambe ancora adolescenti e andavano a scuola insieme.Perché leggerlo? Per tre ragioni: scoprire alcuni interessanti retroscena della recente storia italiana che abbiamo già «sentito», ma i cui dettagli spesso ignoriamo; ricordarsi che dietro a certe decisioni dall’enorme impatto su moltissime persone ci sono singoli individui, con la loro brama, i loro dubbi, i loro sentimenti, le loro passioni… ; rendersi conto che all’interno della storia ci siamo comunque anche noi, come dimostra la vicenda personale, che rende questo libro un quasi-bildungsroman, della scrittrice Elena Stancanelli.
Una citazione dal libro: «Eravamo talmente piccole che quando è morta temevo di dimenticarla e mi pareva insopportabile. Per questo le scrivevo quelle lettere, ogni giorno. Ricordo molto bene la sensazione di resistenza, di cercare di stringere una materia volatile come i ricordi. Volevo tenerli stretti a me, uno accanto all’altro, come il bossoli nel gilet da caccia di mio padre. Anche quelli più brutti. Ed è finita così, che mi sono rimasti addosso specialmente quelli brutti. Le cose brutte sono più resistenti, scavano più a fondo».
Federica Merlo
Newsletter 43 - Agosto 2023ChiudiLeggi la recensione
- Oppenheimer – Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica
Kai Bird e Martin J. Sherwin
Garzanti, Milano, 2023Non si dovrebbe fare. Lo so. Non si dovrebbe parlare o, peggio ancora, recensire un libro senza averlo finito. Eppure, considerando che si tratta di un tomone di 750 pagine – scritte piccole! –, considerando che ha vinto nel 2006 il premio Pulitzer e considerando che è quello da cui il regista Christopher Nolan (suoi, tra gli altri, i capolavori Memento, The Prestige, Interstellar, Tenet e Dunkirk) ha tratto il film Oppenheimer, in uscita a fine agosto 2023, valeva la pena spicciarsi e dire almeno qualcosina sulla «monumentale biografia»: Oppenheimer - Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica che Garzanti, in maniera molto furba (ma ben venga la furbizia quando serve a vendere i libri!) ha ripubblicato quest’anno (la prima edizione italiana era datata 2007), proprio in occasione del kolossal di Nolan.
Ripeto, non si dovrebbe fare… ma, quello che posso dirvi è che, per ora – ed è difficile possa cambiare nel corso della lettura – è veramente un grande, grandissimo piacere, immergersi nella vita di questo eccentrico gigante della fisica. Parte del merito, sicuramente, è anche da attribuire alle doti di scrittura della coppia Bird, giornalista e Sherwin, storico, capaci di non annoiare anche quando riportano gli aneddoti più marginali di una vita che – anche questo va detto – di materiale appassionante e peculiare ne ha fornito davvero parecchio.
Robert Oppenheimer («Oppie» come lo ribattezzarono i suoi studenti) fu un’icona, un mito, nell’America degli anni quaranta, fu anche e soprattutto quello che contribuì, da coordinatore del «progetto Manhattan», alla creazione della prima bomba atomica ed infine divenne qualcuno da mettere ai margini perché non più allineato con i potenti al potere nel post seconda guerra mondiale (nel 1954 rimase invischiato in un’inchiesta-scandalo a seguito della quale gli venne negato l’accesso ai segreti atomici poiché tacciato di aver in passato manifestato simpatie comuniste).
Beh, a questo punto però, se non vi scoccia, io tornerei a leggere…Perché leggerlo? Vi dico, più che altro, perché io lo sto leggendo: per capire i rapporti tra scienza e potere e per riflettere sulle responsabilità di scienziati e politici in quanto accaduto nel secolo scorso. Inoltre, tenedo presente che il binomio «progresso e morte» è ancora oggi di grandissima attualità, lo sto leggendo anche perché credo che una storia come quella di «Oppie» abbia ancora moltissimo da insegnarmi.
Una citazione dal libro: «Robert pranzava ogni giorno con il padre, e una sera alla settimana lo portava a cena presso un elitario club che si riuniva al Caltech; per definire quelle cene, in cui un oratore designato teneva una conferenza, poi seguita da vivaci discussioni, Robert usava la parola tedesca Stammtisch (un tavolo riservato a clienti regolari). Julius era estremamente felice di essere incluso in quegli eventi e scrisse a Frank: “Sono molto divertenti […] Sto incontrando molti degli amici di Robert, ma credo di non aver interferito con le sue attività. È sempre occupato e a parlato brevemente con Einstein un paio di volte”».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 43 - Agosto 2023...
Non si dovrebbe fare. Lo so. Non si dovrebbe parlare o, peggio ancora, recensire un libro senza averlo finito. Eppure, considerando che si tratta di un tomone di 750 pagine – scritte piccole! –, considerando che ha vinto nel 2006 il premio Pulitzer e considerando che è quello da cui il regista Christopher Nolan (suoi, tra gli altri, i capolavori Memento, The Prestige, Interstellar, Tenet e Dunkirk) ha tratto il film Oppenheimer, in uscita a fine agosto 2023, valeva la pena spicciarsi e dire almeno qualcosina sulla «monumentale biografia»: Oppenheimer - Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica che Garzanti, in maniera molto furba (ma ben venga la furbizia quando serve a vendere i libri!) ha ripubblicato quest’anno (la prima edizione italiana era datata 2007), proprio in occasione del kolossal di Nolan.
Ripeto, non si dovrebbe fare… ma, quello che posso dirvi è che, per ora – ed è difficile possa cambiare nel corso della lettura – è veramente un grande, grandissimo piacere, immergersi nella vita di questo eccentrico gigante della fisica. Parte del merito, sicuramente, è anche da attribuire alle doti di scrittura della coppia Bird, giornalista e Sherwin, storico, capaci di non annoiare anche quando riportano gli aneddoti più marginali di una vita che – anche questo va detto – di materiale appassionante e peculiare ne ha fornito davvero parecchio.
Robert Oppenheimer («Oppie» come lo ribattezzarono i suoi studenti) fu un’icona, un mito, nell’America degli anni quaranta, fu anche e soprattutto quello che contribuì, da coordinatore del «progetto Manhattan», alla creazione della prima bomba atomica ed infine divenne qualcuno da mettere ai margini perché non più allineato con i potenti al potere nel post seconda guerra mondiale (nel 1954 rimase invischiato in un’inchiesta-scandalo a seguito della quale gli venne negato l’accesso ai segreti atomici poiché tacciato di aver in passato manifestato simpatie comuniste).
Beh, a questo punto però, se non vi scoccia, io tornerei a leggere…Perché leggerlo? Vi dico, più che altro, perché io lo sto leggendo: per capire i rapporti tra scienza e potere e per riflettere sulle responsabilità di scienziati e politici in quanto accaduto nel secolo scorso. Inoltre, tenedo presente che il binomio «progresso e morte» è ancora oggi di grandissima attualità, lo sto leggendo anche perché credo che una storia come quella di «Oppie» abbia ancora moltissimo da insegnarmi.
Una citazione dal libro: «Robert pranzava ogni giorno con il padre, e una sera alla settimana lo portava a cena presso un elitario club che si riuniva al Caltech; per definire quelle cene, in cui un oratore designato teneva una conferenza, poi seguita da vivaci discussioni, Robert usava la parola tedesca Stammtisch (un tavolo riservato a clienti regolari). Julius era estremamente felice di essere incluso in quegli eventi e scrisse a Frank: “Sono molto divertenti […] Sto incontrando molti degli amici di Robert, ma credo di non aver interferito con le sue attività. È sempre occupato e a parlato brevemente con Einstein un paio di volte”».
Nicolò S. Centemero
Newsletter 43 - Agosto 2023ChiudiLeggi la recensione
- Come d’aria
Ada D’Adamo
Elliot, Roma, 2023Il 6 luglio il memoir di Ada d’Adamo, Come d’aria, ha vinto lo Strega, il più importante e prestigioso premio letterario italiano. D’Adamo, prima di esordire proprio con Come d’aria, era una ballerina, coreografa e studiosa di danza. Era, perché proprio nei giorni in cui il suo libro passava le selezioni e veniva annunciato tra i dodici finalisti, la scrittrice è morta a causa del tumore al seno che l’ha colpita alcuni anni fa.
In «Sullo scaffale» cerchiamo, come avrete notato, di ampliare un po’ gli orizzonti e presentarvi testi che non siano unicamente legati alle tematiche di cui abitualmente si occupa la Fondazione Sasso Corbaro (l’etica clinica, la cura, la malattia…).
Tuttavia, in questo caso, non potevo esimermi dallo scrivere qualche riga per consigliarvi Come d’aria, perché, da tempo, non leggevo un libro in cui disabilità e malattia vengono trattate in maniera così onesta e potente e, soprattutto, senza il ricorso a una retorica stucchevole – brutto vizio di molti testi che trattano questi argomenti.
D’Adamo, nel suo Come d’aria, prima ancora di parlarci del suo tumore, del suo scoprirsi malata, ci racconta però della nascita della figlia Daria (bella la scelta di usare un poetico gioco di parole come titolo!), vera protagonista del libro, affetta da oloprosencefalia, una rara malattia cerebrale che la rende invalida al cento per cento.
Considerando che il libro è breve e in un pomeriggio riuscite a leggerlo, in un fiato, dall’inizio alla fine, non mi voglio dilungare oltre. Concludo, invece, citando le parole di un articolo molto interessante uscito su Il Manifesto l’indomani della vittoria di d’Adamo allo Strega, nel quale Laura Marzi, dice che Come d’aria è anche un romanzo politico: «nella volontà e nel coraggio di esprimere il dolore e il rifiuto di chi si deve prendere cura dell’altra, mostrando che tale rifiuto non è sintomo di pochezza o malignità, è invece componente ineludibile della verità della cura, dell’umanità di chi, come Ada D’Adamo per esempio, si è sentita disperata e furiosa di fronte ai pianti incoercibili di Daria».Perché leggerlo? Perché Come d’aria dimostra che la letteratura è un’arte «malleabile», «plasmabile», e può anche diventare, come in questo caso, uno strumento per raccontare la solitudine a cui i pazienti e i loro cari vanno incontro quando manca loro un’adeguato sostegno da parte delle istituzioni.
Una citazione dal libro: «È dura da ammettere, ma seguendoti nella tua giovane vita, ho capito che esiste una disabilità “bella” e una disabilità “brutta” e che anche in questo “mondo a parte” le persone – dagli sconosciuti, ai terapisti, ai medici – subiscono il fascino del bello, proprio come avviene nel “mondo normale”. All’inizio questo mi infastidiva, mi domandavo se fosse giusto che gli altri si avvicinassero a te solo perché eri bella. Ma poi in quel “solo” ho trovato il senso più nobile e profondo della parola bellezza. Ho pensato che ciascuno di noi riceve almeno un dono dalla vita e che, nella sfiga generale, tanto vale approfittarne. Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te».
Federica Merlo
Newsletter 42 - Luglio 2023...
Il 6 luglio il memoir di Ada d’Adamo, Come d’aria, ha vinto lo Strega, il più importante e prestigioso premio letterario italiano. D’Adamo, prima di esordire proprio con Come d’aria, era una ballerina, coreografa e studiosa di danza. Era, perché proprio nei giorni in cui il suo libro passava le selezioni e veniva annunciato tra i dodici finalisti, la scrittrice è morta a causa del tumore al seno che l’ha colpita alcuni anni fa.
In «Sullo scaffale» cerchiamo, come avrete notato, di ampliare un po’ gli orizzonti e presentarvi testi che non siano unicamente legati alle tematiche di cui abitualmente si occupa la Fondazione Sasso Corbaro (l’etica clinica, la cura, la malattia…).
Tuttavia, in questo caso, non potevo esimermi dallo scrivere qualche riga per consigliarvi Come d’aria, perché, da tempo, non leggevo un libro in cui disabilità e malattia vengono trattate in maniera così onesta e potente e, soprattutto, senza il ricorso a una retorica stucchevole – brutto vizio di molti testi che trattano questi argomenti.
D’Adamo, nel suo Come d’aria, prima ancora di parlarci del suo tumore, del suo scoprirsi malata, ci racconta però della nascita della figlia Daria (bella la scelta di usare un poetico gioco di parole come titolo!), vera protagonista del libro, affetta da oloprosencefalia, una rara malattia cerebrale che la rende invalida al cento per cento.
Considerando che il libro è breve e in un pomeriggio riuscite a leggerlo, in un fiato, dall’inizio alla fine, non mi voglio dilungare oltre. Concludo, invece, citando le parole di un articolo molto interessante uscito su Il Manifesto l’indomani della vittoria di d’Adamo allo Strega, nel quale Laura Marzi, dice che Come d’aria è anche un romanzo politico: «nella volontà e nel coraggio di esprimere il dolore e il rifiuto di chi si deve prendere cura dell’altra, mostrando che tale rifiuto non è sintomo di pochezza o malignità, è invece componente ineludibile della verità della cura, dell’umanità di chi, come Ada D’Adamo per esempio, si è sentita disperata e furiosa di fronte ai pianti incoercibili di Daria».Perché leggerlo? Perché Come d’aria dimostra che la letteratura è un’arte «malleabile», «plasmabile», e può anche diventare, come in questo caso, uno strumento per raccontare la solitudine a cui i pazienti e i loro cari vanno incontro quando manca loro un’adeguato sostegno da parte delle istituzioni.
Una citazione dal libro: «È dura da ammettere, ma seguendoti nella tua giovane vita, ho capito che esiste una disabilità “bella” e una disabilità “brutta” e che anche in questo “mondo a parte” le persone – dagli sconosciuti, ai terapisti, ai medici – subiscono il fascino del bello, proprio come avviene nel “mondo normale”. All’inizio questo mi infastidiva, mi domandavo se fosse giusto che gli altri si avvicinassero a te solo perché eri bella. Ma poi in quel “solo” ho trovato il senso più nobile e profondo della parola bellezza. Ho pensato che ciascuno di noi riceve almeno un dono dalla vita e che, nella sfiga generale, tanto vale approfittarne. Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te».
Federica Merlo
Newsletter 42 - Luglio 2023ChiudiLeggi la recensione
- Il fuoco invisibile
Daniele Rielli
Rizzoli, Milano, 2023Dal 2013 il batterio Xylella, proveniente da una pianta ornamentale importata dal Costa Rica, è responsabile di una gigantesca moria di ulivi – 21 milioni a oggi – nel Salento, zona della Puglia all’estremo sud di questa regione.
Da poco è uscito un libro, Il fuoco invisibile, che ha per protagonista proprio questa epidemia. L’ha scritto Daniele Rielli (salentino di origini, bolzanino di adozione – il padre, un medico pugliese, emigrò con la famiglia in Alto Adige) un romanziere dalla penna straordinaria (Lascia stare la gallina e Odio), giornalista e anche podcaster (PDR).
Rielli, nella sua «storia umana di un disastro naturale» (sottotitolo del libro) ci racconta non solo le fasi iniziali, dalla scoperta dell’agente patogeno alla sua progressiva diffusione, ma si concentra, in particolare, sul come non si sia ancora riusciti a contenere in alcun modo l’avanzare verso nord della malattia per colpa di una classe politica sempre e solo rivolta ai propri interessi e della popolazione raggirata dalle teorie del complotto.
Non aspettatevi però un saggio, sebbene il lavoro di documentazione dello scrittore sia davvero significativo (pubblicazioni scientifiche e interviste con professori universitari, ricercatori, coltivatori, politici, personalità influenti, avvocati e magistrati), perché Il fuoco invisibile è più che altro un’opera letteraria multiforme: un po’, certamente, racconto di quanto è avvenuto e ancora, purtroppo, avviene in quelle terre, un po’ analisi di come i negazionisti siano stati in grado di convincere moltissimi agricoltori a opporsi agli abbattimenti preventivi (unica strategia, al momento, in grado di contrastare l’avanzata del batterio) e un po’ racconto autobiografico dello scrittore e del suo rapporto con il nonno e il padre, legati da una forza arcaica, misteriosa e potentissima ai loro ulivi – maestose piante secolari, ritenute dalle leggende popolari immortali.Perché leggerlo? Per cercare di capire come nascano le false teorie e come queste siano capaci di prevalere sulle spiegazioni scientifiche e, sfruttando i social network, di diffondersi all’interno della popolazione. Ma anche per fare interessanti paragoni con quanto di spaventosamente simile, a livello di comunicazione delle informazioni, abbiamo appena vissuto durante la pandemia di Covid-19.
Una citazione dal libro: «Spesso qualcuno di loro si spinge fino al vigneto dove lui sta lavorando e pretende di controllare se i prodotti che usa siano o non siano bio. Un giorno un professore di filosofia con il codino, che fa parte del gruppo di negazionisti, è partito con la solita filippica e Curci non ce l’ha fatta più: “ma tu lo sai perché abbiamo una sola bocca e due orecchie? Perché bisogna ascoltare il doppio e parlare la metà, ma vaffanculo, và”».
Federica Merlo
Newsletter 42 - Luglio 2023...
Dal 2013 il batterio Xylella, proveniente da una pianta ornamentale importata dal Costa Rica, è responsabile di una gigantesca moria di ulivi – 21 milioni a oggi – nel Salento, zona della Puglia all’estremo sud di questa regione.
Da poco è uscito un libro, Il fuoco invisibile, che ha per protagonista proprio questa epidemia. L’ha scritto Daniele Rielli (salentino di origini, bolzanino di adozione – il padre, un medico pugliese, emigrò con la famiglia in Alto Adige) un romanziere dalla penna straordinaria (Lascia stare la gallina e Odio), giornalista e anche podcaster (PDR).
Rielli, nella sua «storia umana di un disastro naturale» (sottotitolo del libro) ci racconta non solo le fasi iniziali, dalla scoperta dell’agente patogeno alla sua progressiva diffusione, ma si concentra, in particolare, sul come non si sia ancora riusciti a contenere in alcun modo l’avanzare verso nord della malattia per colpa di una classe politica sempre e solo rivolta ai propri interessi e della popolazione raggirata dalle teorie del complotto.
Non aspettatevi però un saggio, sebbene il lavoro di documentazione dello scrittore sia davvero significativo (pubblicazioni scientifiche e interviste con professori universitari, ricercatori, coltivatori, politici, personalità influenti, avvocati e magistrati), perché Il fuoco invisibile è più che altro un’opera letteraria multiforme: un po’, certamente, racconto di quanto è avvenuto e ancora, purtroppo, avviene in quelle terre, un po’ analisi di come i negazionisti siano stati in grado di convincere moltissimi agricoltori a opporsi agli abbattimenti preventivi (unica strategia, al momento, in grado di contrastare l’avanzata del batterio) e un po’ racconto autobiografico dello scrittore e del suo rapporto con il nonno e il padre, legati da una forza arcaica, misteriosa e potentissima ai loro ulivi – maestose piante secolari, ritenute dalle leggende popolari immortali.Perché leggerlo? Per cercare di capire come nascano le false teorie e come queste siano capaci di prevalere sulle spiegazioni scientifiche e, sfruttando i social network, di diffondersi all’interno della popolazione. Ma anche per fare interessanti paragoni con quanto di spaventosamente simile, a livello di comunicazione delle informazioni, abbiamo appena vissuto durante la pandemia di Covid-19.
Una citazione dal libro: «Spesso qualcuno di loro si spinge fino al vigneto dove lui sta lavorando e pretende di controllare se i prodotti che usa siano o non siano bio. Un giorno un professore di filosofia con il codino, che fa parte del gruppo di negazionisti, è partito con la solita filippica e Curci non ce l’ha fatta più: “ma tu lo sai perché abbiamo una sola bocca e due orecchie? Perché bisogna ascoltare il doppio e parlare la metà, ma vaffanculo, và”».
Federica Merlo
Newsletter 42 - Luglio 2023ChiudiLeggi la recensione
- Il cerchio perfetto
Claudia Petrucci
Sellerio, Palermo, 2023A tre anni di distanza da L’esercizio, bellissimo romanzo d’esordio (qui recensito in Sullo Scaffale), torna Claudia Petrucci, scrittrice italiana che vive in Australia, a Perth. Il cerchio perfetto, questo il titolo, uscito di recente per i tipi di Sellerio, è un romanzo distopico che, pur mantenendo l’ambientazione milanese de L’Esercizio, da questo si discosta per le tematiche che tratta. Infatti, Petrucci, in questa sua seconda storia, dal mondo del teatro e della malattia mentale, si sposta a quello dell’architettura e del mercato immobiliare, confermando così la capacità di trovarsi a suo agio in contesti molto specifici – si capisce, insomma, che quanto scrive è frutto di un gran lavoro di documentazione, sebbene questo non dia mai l’idea di essere forzato o uno sfoggio di conoscenza fine a sé stesso.
La vicenda, che assumerà tinte da thriller pur non essendolo, segue due linee narrative intrecciate, entrambe con le loro protagoniste: Lidia, ragazza borghese di una Milano «da bere» degli anni Ottanta e Irene, agente immobiliare nella stessa città, all’incirca una quarantina-cinquantina d’anni dopo (volutamente, Petrucci non fornisce in questo secondo caso precisi dettagli temporali, ma facilmente si intuisce che Irene si trova in un futuro a noi molto prossimo).
Può bastare così, altrimenti il rischio è quello di togliervi il gusto della lettura di un romanzo che arriva poco oltre le 200 pagine, si legge d’un fiato e ha quel ritmo – e pure alcuni colpi di scena – che lo rendono davvero coinvolgente. Aggiungo però una nota conclusiva, un parere personalissimo che, come tale, vorrei fosse preso: Il cerchio perfetto è sicuramente un libro più maturo a livello di scrittura, più asciutto, però per me non ha la potenza de L’esercizio (dal quale vi consiglierei comunque di partire per conoscere Petrucci). Tuttavia, e bisogna riconoscerlo perché i premi letterari più importanti non l’hanno fatto – peccato! Il cerchio perfetto è, senza dubbio, tra i migliori romanzi italiani sin qui pubblicati quest’anno.Perché leggerlo? Perché Petrucci è una voce nuova, potente e «diversa» dalla troppa normalità che si trova in libreria ultimamente. E poi, anche per questo incipit, stupendo, che trovate qui.
Una citazione dal libro: «[…] per quanto la flessibilità, la condivisione, l’abbandono della tradizione borghese, la libertà, la libertà di viaggiare, di spostarsi, per quanto tutta questa narrazione nauseante miri a farci sentire meno soli, meno dispersi, parte di un insieme di milioni di individui pronti alla fuga, per quanto la nostra giovinezza ci venga raccontata come una dote irrinunciabile, io sento di aver perso tutto. Lo dico con pace, con serenità, e senza alcun rancore, perché era inevitabile: abbiamo perso tutto».
Federica Merlo
Newsletter 41 - Giugno 2023...
A tre anni di distanza da L’esercizio, bellissimo romanzo d’esordio (qui recensito in Sullo Scaffale), torna Claudia Petrucci, scrittrice italiana che vive in Australia, a Perth. Il cerchio perfetto, questo il titolo, uscito di recente per i tipi di Sellerio, è un romanzo distopico che, pur mantenendo l’ambientazione milanese de L’Esercizio, da questo si discosta per le tematiche che tratta. Infatti, Petrucci, in questa sua seconda storia, dal mondo del teatro e della malattia mentale, si sposta a quello dell’architettura e del mercato immobiliare, confermando così la capacità di trovarsi a suo agio in contesti molto specifici – si capisce, insomma, che quanto scrive è frutto di un gran lavoro di documentazione, sebbene questo non dia mai l’idea di essere forzato o uno sfoggio di conoscenza fine a sé stesso.
La vicenda, che assumerà tinte da thriller pur non essendolo, segue due linee narrative intrecciate, entrambe con le loro protagoniste: Lidia, ragazza borghese di una Milano «da bere» degli anni Ottanta e Irene, agente immobiliare nella stessa città, all’incirca una quarantina-cinquantina d’anni dopo (volutamente, Petrucci non fornisce in questo secondo caso precisi dettagli temporali, ma facilmente si intuisce che Irene si trova in un futuro a noi molto prossimo).
Può bastare così, altrimenti il rischio è quello di togliervi il gusto della lettura di un romanzo che arriva poco oltre le 200 pagine, si legge d’un fiato e ha quel ritmo – e pure alcuni colpi di scena – che lo rendono davvero coinvolgente. Aggiungo però una nota conclusiva, un parere personalissimo che, come tale, vorrei fosse preso: Il cerchio perfetto è sicuramente un libro più maturo a livello di scrittura, più asciutto, però per me non ha la potenza de L’esercizio (dal quale vi consiglierei comunque di partire per conoscere Petrucci). Tuttavia, e bisogna riconoscerlo perché i premi letterari più importanti non l’hanno fatto – peccato! Il cerchio perfetto è, senza dubbio, tra i migliori romanzi italiani sin qui pubblicati quest’anno.Perché leggerlo? Perché Petrucci è una voce nuova, potente e «diversa» dalla troppa normalità che si trova in libreria ultimamente. E poi, anche per questo incipit, stupendo, che trovate qui.
Una citazione dal libro: «[…] per quanto la flessibilità, la condivisione, l’abbandono della tradizione borghese, la libertà, la libertà di viaggiare, di spostarsi, per quanto tutta questa narrazione nauseante miri a farci sentire meno soli, meno dispersi, parte di un insieme di milioni di individui pronti alla fuga, per quanto la nostra giovinezza ci venga raccontata come una dote irrinunciabile, io sento di aver perso tutto. Lo dico con pace, con serenità, e senza alcun rancore, perché era inevitabile: abbiamo perso tutto».
Federica Merlo
Newsletter 41 - Giugno 2023ChiudiLeggi la recensione