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Sullo scaffale

Consigli di visione, spunti di riflessione, recensioni di film e libri raccolti nel Centro di documentazione della Fondazione Sasso Corbaro.

Recensioni 

  • memorie-postume-di-bras-cubas
    Memorie postume di Brás Cubas

    Machado de Assis
    Fazi, Roma, 2020

    È impossibile che un uomo ci racconti la sua vita, sotto forma di romanzo, dopo la propria morte. Eppure, la grandezza della letteratura sta anche in questo: rendere possibile l’impossibile. Dopo questa doverosa premessa, utile ...

    È impossibile che un uomo ci racconti la sua vita, sotto forma di romanzo, dopo la propria morte. Eppure, la grandezza della letteratura sta anche in questo: rendere possibile l’impossibile. Dopo questa doverosa premessa, utile per capire il geniale espediente usato dall’autore brasiliano Machado de Assis (classe 1839) possiamo parlare del libro più spassoso (ebbene sì!) che io abbia mai letto. La storia, narrata in prima persona, è quella del nobile Brás Cubas, un uomo che non si è mai sposato, non ha mai avuto figli, si è fatto raggirare più volte dalle compagne e le cui ambizioni di carriera sono state tanto temerarie quanto fallimentari. Tuttavia, al di là della trama, composta da un classico susseguirsi di piccoli drammi «da ricchi» (amanti, tradimenti, equivoci etc.), questo libro si deve leggere per Brás Cubas «per il suo candore disarmante, per il suo, pienamente meritato, disgusto di sé, e per le domande che ci suggerisce: cos’è la vita al di là dei suoi inconvenienti e di ciò che otteniamo? Cos’è un romanzo?» (New York Times, 2020). Inoltre, quello che stupisce di questo testo, pubblicato la prima volta nel diciannovesimo secolo, è la sua incredibile attualità. Se fosse possibile ripulirlo dai vari riferimenti storici dell’epoca, sembrerebbe di leggere un libro scritto ai giorni nostri. De Assis è un maestro della reticenza, della preterizione (affermare di non voler dire una cosa e intanto dirla) e della meta-narrazione (ci sono parecchie considerazioni divertenti dell’autore rispetto a ciò che scrive). Le trecento pagine del romanzo, composto da brevi capitoletti, si leggono in un baleno e con la sua sagace e raffinata ironia lo scrittore brasiliano riesce nella duplice impresa di criticare aspramente, ma senza inutile retorica, la società e di affrontare il tabù della morte… strappando sempre una genuina risata.

    Perché leggerlo? Perché per Susan Sontag, De Assis è «il più grande autore dell’America Latina», perché per José Saramago «ha prodotto un’opera immensa caratterizzata da un senso dell’umorismo inimitabile» e perché Woody Allen è rimasto scioccato «per quanto è affascinante e divertente» questo romanzo. Che dite, vi basta?

    Una citazione dal libro: Capitolo 71, Il difetto del libro «Comincio a pentirmi di questo libro. Non che mi abbia stancato; non ho altro da fare; e sul serio, inviare qualche capitoletto striminzito nel vostro mondo è pur sempre un’attività buona a distrarre un poco dall’eternità. Però che libro noioso, puzza di cadavere, soffre di una certa rigidità sepolcrale; una mancanza grave, e d’altra parte minima, perché il difetto peggiore del libro, lettori, siete voi. Avete fretta di invecchiare, mentre il mio libro cammina lento; amate le trame dense e immediate, lo stile piano e regolare, e questo libro e il mio stile sbandano come ubriachi a destra e a manca, partono e subito si fermano, borbottano, schiamazzano, sghignazzano, minacciano i cieli, scivolano e cascano per terra… E cascano! Cadrete, miserabili foglie del mio cipresso, come qualsiasi altra foglia bella e appariscente; se ancora avessi gli occhi, verserei per voi una lacrima di rimpianto. È il grande vantaggio della morte, che se non lascia bocca per ridere non lascia nemmeno occhi per piangere… Cadrete».

    Federica Merlo

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  • svegliare-i-leoni
    Svegliare i leoni

    Ayelet Gundar-Goshen
    Giuntina, Firenze, 2017

    Svegliare i leoni è, in ordine di pubblicazione, il secondo dei tre romanzi (di tutti se ne parla un gran bene a livello internazionale) scritti fino ad ora dalla giovane e talentuosa autrice israeliana Ayelet Gundar-Goshen.
    Il libro, ...

    Svegliare i leoni è, in ordine di pubblicazione, il secondo dei tre romanzi (di tutti se ne parla un gran bene a livello internazionale) scritti fino ad ora dalla giovane e talentuosa autrice israeliana Ayelet Gundar-Goshen.
    Il libro, che definirei per un terzo un thriller e per due terzi una profonda analisi psicologica dei personaggi, parte da uno spunto di trama semplicemente geniale: provando il suo SUV tra le dune del deserto del Negev il neurochirurgo Eitan Green – persona dai solidi principi morali tanto da aver rinunciato ad una promettente carriera rifiutando la corruzione del suo superiore – uccide, investendolo, un lavoratore migrante eritreo e preso dal panico per quanto successo scappa.
    Mi fermo qui con il racconto delle vicende perché non avrebbe senso rovinare le interessanti sorprese e i colpi di scena che il libro riserva.
    Credo invece sia utile sapere, per chi ne volesse intraprendere la lettura, quali sono i due meriti a mio avviso maggiori di questo Svegliare i leoni. Il primo, è la scrittura perfetta. La Gundar-Goshen ha una prosa semplice ma molto elengante e il libro scorre dalla prima all’ultima pagina senza mai una sbavatura, senza mai un termine fuori posto. Il secondo è la trattazione di tematiche molto interessanti ed attuali. Da una parte, la colpa, la bugia, i non detti e i ricatti all’interno delle relazioni umane, dall’altra uno sguardo affascinante su Israele e sul rapporto di questo stato con i migranti (in questo caso in un campo profughi) che ci permette di confrontare la nostra realtà con un’altra più lontana… purtroppo solo geograficamente.
    Quando lo si conclude, se gli si perdona qualche digressione descrittiva di troppo su aspetti o personaggi marginali e un finale, forse, un po’ frettoloso, Svegliare i leoni è uno di quei libri che, come si suol dire, «ti rimane dentro».

    Perché leggerlo? Per leggere «cultura ebraica». Nonostante sia da poco uscita un’edizione Feltrinelli, uno dei motivi che mi ha spinto a leggerlo è stato inizialmente il desiderio di scoprire qualche titolo pubblicato da Giuntina, casa editrice fiorentina, unica in Europa ad essere specializzata in cultura ebraica.

    Una citazione dal libro: «L’unico denominatore comune era il nome con cui li definivano altre persone, che avevano la pelle di un altro colore. Cosa li accomunava al di fuori del tintinnio metallico delle catene del viaggio che li aveva legati? Emigrare significa lasciare un posto per un altro, trascinandoti attaccato alla caviglia con una catena d’acciaio il posto che hai lasciato. Se emigrare è difficile, è perché è dura camminare per il mondo con un intero paese legato alla caviglia».

    Federica Merlo

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    Il disagio della sera

    Marieke Lucas Rijneveld
    Nutrimenti, Roma, 2019

    Il 26 Agosto 2020 quando Il disagio della sera ha vinto l’ Internationl Booker Prize (premio tra i più prestigiosi nel panorama della letteratura mondiale) non è stata una sorpresa. Nonostante gli altri cinque finalisti fossero altrettanto meritevoli ( ...

    Il 26 Agosto 2020 quando Il disagio della sera ha vinto l’Internationl Booker Prize (premio tra i più prestigiosi nel panorama della letteratura mondiale) non è stata una sorpresa. Nonostante gli altri cinque finalisti fossero altrettanto meritevoli (qui la lista nella quale tutti tranne uno hanno già un’edizione italiana) questo esordio, già best seller in Olanda nel 2018, del/della ventinovenne Marieke Lucas Rijneveld (identità non-binaria) ha convinto i giurati per la sua «poetica» e per la sua «emozionante potenza».
    Jas Mulder, ragazzina di 10 anni, vive con la sua devota famiglia di agricoltori in una fattoria nella campagna dei Paesi Bassi. Un giorno d’inverno, durante il periodo natalizio, suo fratello maggiore parte per un gita di pattinaggio sul ghiaccio. Risentita e arrabbiata per non poter partecipare in quanto «troppo piccola» Jas fa una supplica infantile e perversa «e chiesi a Dio se per favore invece del mio coniglio non poteva prendersi mio fratello: Amen». Sfortunatemente, quella stessa sera il ghiaccio si spezza e il ragazzo muore annegato nelle gelide acque del lago. La tragedia travolge tutta la famiglia (composta anche da un altro fratello maschio, Odde, e una sorella femmina, Hanna) e Jas, narratrice in prima persona della vicenda, viene trascinata in un vortice di fantasie e turbamenti sempre più inquietanti, mentre guarda sé stessa disintegrarsi.
    Da tanto non leggevo qualcosa di così disturbante e affascinante al tempo stesso. Cupo, crudo, con un linguaggio allusivo e metaforico ma anche poetico e originale. Questo romanzo, che in parte, per stessa ammissione dell’autore/autrice, riporta alcune vicende autobiografiche è un vero pugno nello stomaco!

    Perché leggerlo? Per farsi una propria idea sul perché Rijneveld abbia scelto un narratore bambino, che ricorda famosi classici quali, ad esempio, Il buio oltre la siepe o Le avvenuture di Huckleberry Finn. Alcuni pensieri sembrerebbero, infatti, richiedere un grado di maturità superiore: «ma l’unica cosa in cui posso perdermi in questo momento è la perdita stessa», «poco a poco mio fratello esce dalle teste degli altri, mentre nelle nostre non fa che piantarsi sempre più a fondo», «potete immaginare quante domande ho dentro di me, e quante risposte senza un segno di spunta».

    Una citazione dal libro: «Ogni perdita ha in sè tutti i precedenti tentativi di tenere con te qualcosa che non volevi perdere, e che però devi lasciare andare. Da un sacchetto pieno di splendide biglie a un fratello. Nella perdita troviamo noi stessi e siamo ciò che siamo: esseri vulnerabili come pulcini di storno ancora implumi, che ogni tanto cadono giù dal nido e sperano di essere recuperati».

    Federica Merlo

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    Città aperta

    Teju Cole
    Einaudi, Milano, 2013

    Prima di parlare di questo affascinante romanzo d’esordio (pubblicato ormai qualche anno fa) è doveroso introdurre il suo poliedrico autore. Teju Cole, americano di origine nigeriana (arrivato negli Stati Uniti a 17 anni), non è ...

    Prima di parlare di questo affascinante romanzo d’esordio (pubblicato ormai qualche anno fa) è doveroso introdurre il suo poliedrico autore. Teju Cole, americano di origine nigeriana (arrivato negli Stati Uniti a 17 anni), non è solo romanziere (oltre a questo Città aperta, sempre Einaudi ha pubblicato l’altrettanto incantevole Ogni giorno è per il ladro), saggista e professore di scrittura creativa ad Harvard, ma anche fotografo, critico di fotografia (del New York Times Magazine dal 2015 fino al 2019, e qui trovate l’archivio dei suoi saggi) e curatore.

    Venendo a Città aperta… siamo di fronte a un testo sicuramente originale. In gran parte ambientato a New York e a Bruxelles, le vicende, o meglio, una serie di incontri e riflessioni su ciò che lo circonda, sono narrate in prima persona da Julius, psichiatra specializzando, mezzo nigeriano (quanto c’è di autobiografico?) e mezzo tedesco.

    Città aperta è volutamente un libro senza trama, è un flusso libero, per certi aspetti quasi un diario, anche se privo della struttura che abitualmente contraddistingue questo genere letterario. A tal proposito, per esempio, i dialoghi di Julius con una serie di immigrati incontrati casualmente durante le sue peregrinazioni (un liberiano imprigionato per più di due anni in una struttura di detenzione nel Queens; un lustrascarpe haitiano; uno studente marocchino che gestisce un Internet café a Bruxelles) non sono contrassegnati da virgolette, trattini o interruzioni di paragrafo, ma risultano formalmente indistinguibili dalla lingua del narratore.

    Difficile durante la lettura non pensare a W.G. Sebald, perché, come nel grande scrittore tedesco, non sono veri e propri eventi o mutamenti improvvisi che spingono la narrazione. Piuttosto, e qui sta la grandezza di Cole, il testo è una sorta di costante indagine accidentale, ricca di colti rimandi musicali (Mahler, il Jazz...), letterari (Roland Barthes, Tahar Ben Jelloun...) e artistici (Velasquez...), dove ciò che coinvolge il lettore è l’immedesimazione col narratore che sembra usare la scrittura per indagare e accettare la sua solitudine.

    Difficile anche non pensare a Zadie Smith (tanti gli aspetti biografici in comune tra la scrittrice inglese e Cole), perché, nonostante la ricchezza tematica (la morte, i difficili rapporti familiari, il riscaldamento globale, l’11 settembre, per citarne solo alcuni) ciò che contraddistinge Città aperta, a volte in maniera velata, a volte più esplicita, è la costante presenza, come nella Smith, di “lively multiracial themes” (“vivaci tematiche multirazziali” come le ha definite J. Wood nell’articolo The arrival of enigmas, The New Yorker, 2011).

    Perché leggerlo? Per conoscere Teju Cole, lasciandosi ammaliare non solo dai suoi due romanzi ma anche dalla sua produzione saggistica (L’estraneo e il noto, Contrasto, Roma, 2018), e fotografica (Punto d’ombra, Contrasto, Roma, 2014). Una curiosità: lo scrittore, che nel 2014 ha vissuto sei mesi a Zurigo su invito della Literaturhaus per una residenza artistica, ama moltissimo la Svizzera e ha recentemente pubblicato un libro fotografico, Fernwhe (Mack, Londra, 2020), che raccoglie fotografie fatte da lui dal 2014 al 2019 nei suoi ripetuti viaggi nel nostro paese.

    Una citazione dal libro: «La musica di Mahler fece da sfondo alle mie attività per tutto il giorno seguente. C’era una nuova intensità anche nei dettagli più comuni, in ospedale […], come se la precisione della struttura orchestrale si specchiasse nel mondo visibile, e ogni particolare fosse diventato in qualche modo significativo. Uno dei miei pazienti si era seduto di fronte a me con le gambe accavallate, e il piede sollevato, il destro, che si muoveva a scatti nella lucida scarpa nera, sembrava anch’esso stranamente parte di quell’intricato mondo musicale».

    Federica Merlo

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    Il colibrì

    Sandro Veronesi
    La Nave di Teseo, Milano, 2019

    Fresco vincitore del premio Strega 2020 (che fa di Sandro Veronesi l’unico scrittore, insieme a Paolo Volponi, ad aver vinto due volte il più prestigioso riconoscimento letterario italiano), Il colibrì narra la storia tormentata – ...

    Fresco vincitore del premio Strega 2020 (che fa di Sandro Veronesi l’unico scrittore, insieme a Paolo Volponi, ad aver vinto due volte il più prestigioso riconoscimento letterario italiano), Il colibrì narra la storia tormentata – degli amori, dei tradimenti, delle sconfitte, delle difficili relazioni interpersonali e soprattutto dei lutti – di Marco Carrera, oculista fiorentino soprannominato proprio il colibrì perché da bimbetto cresceva poco ed era bassino. La metafora con l’uccello, però, risulta avere in realtà una duplice accezione perché descrive alla perfezione anche i tratti caratteriali del protagonista. Carrera infatti, come il piccolissimo volatile tropicale, impegnerà tutte le sue energie per restare sospeso, quasi immobile, continuando imperterrito a resistere nonostante tutto quello che la vita gli riserverà.

    Parlare della trama rischierebbe irrimediabilmente di rovinare i colpi di scena, le svolte improvvise e i grandi dolori che il lettore si trova ad affrontare pagina dopo pagina. Il testo, almeno fino a circa cento pagine dal termine è, a mio avviso, un libro quasi perfetto (forse troppo?). Seppur non una novità, ho trovato geniale la mescolanza di forme: lettere, sms, diari, frammenti di appunti, persino una lista (tratto distintivo della prosa dello scrittore toscano che è, tra l’altro, laureato in architettura) degli oggetti d’arredamento di design contenuti nella vecchia casa di famiglia. Seppur non una novità anche in questo caso, ho trovato gestita magistralmente la non linearità temporale nel susseguirsi dei brevi capitoli che sincopa il ritmo ravvivandolo continuamente.

    Insomma… Sandro Veronesi con questo Il colibrì, che può anche non piacere e che a mio parere, resta inferiore a Caos calmo (Strega nel 2006, La nave di Teseo lo ha recentemente ristampato!), si conferma tra i migliori scrittori in circolazione in Italia.

    Perché leggerlo? Ci sono poche pagine che da sole potrebbero valere tutto il libro. Veronesi, in una nota, dichiara che il capitolo «Ai Mulinelli» è una riscrittura di uno dei racconti più belli di Beppe Fenoglio, «Il Gorgo». E, così, da un capolavoro… ne è venuto fuori un altro.

    Una citazione dal libro: «Dovrebbe essere noto – e invece non lo è – che il destino dei rapporti tra persone viene deciso all’inizio, una volta per tutte, sempre, e che per sapere in anticipo come andranno a finire le cose basta guardare come sono cominciate. In effetti, quando un rapporto nasce c’è sempre un momento di illuminazione nel quale si riesce anche a vederlo crescere, distendersi nel tempo, diventare ciò che diventerà e finire come finirà – tutto insieme. Si vede bene perché in realtà è già tutto contenuto nell’inizio, come la forma di ogni cosa è contenuta nel suo primo manifestarsi. Ma si tratta di un momento, per l’appunto, e poi quella visione ispirata svanisce, o viene rimossa, ed è solo per questo che le storie tra le persone producono sorprese, danni, piacere o dolore imprevisto».

    Federica Merlo

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    Riparare i viventi

    Maylis de Kerangal
    Feltrinelli, Milano, 2015

    Riparare i viventi, della filosofa e sociologa francese Maylis de Kerangal, è il racconto di 24 ore. Simon e suoi due amici Chris e John fanno surf in una gelida mattina di febbraio nella Francia del nord, ...

    Riparare i viventi, della filosofa e sociologa francese Maylis de Kerangal, è il racconto di 24 ore. Simon e suoi due amici Chris e John fanno surf in una gelida mattina di febbraio nella Francia del nord, a Le Havre (luogo dove l’autrice stessa ha trascorso l’infanzia). Dopo un’epica sessione tra le onde oceaniche, i tre fanno rientro verso casa in un vecchio furgoncino stile hippie. Chi guida, Chris, non si capisce se per un colpo di sonno o per colpa del ghiaccio esce di strada andando a sbattere contro un palo. L’impatto, che proietta Simon fuori dall’abitacolo, procurerà al giovane lesioni al cervello irreversibili, lasciandolo in stato di morte cerebrale. A questo punto l’infermiere Thomas Rémige, coordinatore della donazione di organi, avvia il complicato (burocraticamente ma soprattutto moralmente!) processo che permetterà al cuore di Simon, ancora in perfetta forma, di «riparare una vivente», la traduttrice Parigina Claire Méjan. A mio avviso, la grandezza di questo breve romanzo (218 pagine), definito sulla quarta di copertina da un blurb azzeccatissimo «bello come una tragedia antica», non sta solo nella vicenda narrata ma nella sua coralità. Più facile sarebbe stato concentrarsi su Simon, renderlo protagonista unico e assoluto della sua storia. De Kerangal, invece, liberando la medicina dal suo peculiare linguaggio tecnico (senza però che i dettagli più realistici vengano meno), riesce a descrivere con una prosa perfetta e in maniera mai superficiale, pietistica o scontata tutta la rete di personaggi che viene coinvolta dal tragico evento. Il risultato è quello di portare il lettore di fronte alla «vita stessa, la catena umana di tutte quelle persone – fra cui il medico e l’infermiera del reparto di rianimazione e i loro piccoli gesti quotidiani – che permeteranno di riparare alla intollerabile ferita nel tessuto sociale rappresentata dalla morte di Simon». (F. Musolino, minima&moralia, 2015).

    Perché leggerlo? Perché tocca argomenti fondanti la nostra natura di «essere umani». In particolare, il concetto ontologico del «dono», alla base della medicina dei trapianti, e la desacralizzazione del corpo, resa possibile dalle tecnologie a disposizione nelle terapie intensive dei moderni ospedali.

    Una citazione dal libro: «Anche la strada è silenziosa, silenziosa e monocroma come il resto del mondo. La catastrofe si è propagata agli elementi, ai luoghi, alle cose, un flagello, come se tutto si conformasse a quanto è accaduto quella mattina, dietro le falesie […]».

    Nota: Il 27.05.2020, in occasione del Premio Von Rezzoni XIV, l'autrice ha conversato con Philippe Lançon, scrittore francese finalista al premio con il suo libro La traversata (Edizioni e/o, Roma, 2020). La traversata è stato recensito nella Newsletter #2.

    Federica Merlo

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    I colpevoli

    Andrea Pomella
    Einaudi, Milano, 2020

    Dopo aver scritto un meraviglioso memoir sulla sua depressione, ( L’uomo che trema, Einaudi, Milano, 2018) Andrea Pomella (intervistato sul prossimo numero, il 46, della Rivista per le Medical Humanities), continua a raccontarci di sé e pubblica, sempre nell’elegante collana ...

    Dopo aver scritto un meraviglioso memoir sulla sua depressione, (L’uomo che trema, Einaudi, Milano, 2018) Andrea Pomella (intervistato sul prossimo numero, il 46, della Rivista per le Medical Humanities), continua a raccontarci di sé e pubblica, sempre nell’elegante collana Supercoralli di Einaudi, I colpevoli. Premessa: è impossibile parlare senza metterci il cuore dei libri di un amico, soprattutto se l’hai conosciuto grazie alla passione per le sue parole. Comunque… I colpevoli nasce dal Pomella bambino che dice a suo padre, andatosene via di casa, «Non voglio più vederti». È questo rifiuto, che dura trentasette anni, e si conclude il 16 dicembre del 2017, all’origine di tutta la narrazione. Lo scrittore, ormai quarantasettenne, non racconta però, come ci si potrebbe aspettare, la ricostruzione del rapporto con il padre, ormai sessantottenne. Di questo «rapporto» Pomella ne fa piuttosto un’analisi «scrupolosa e senza scrupoli», alternandola a digressioni sia personali (sulla vita con la moglie e il figlio, sul lavoro, sull’infanzia) sia extra-personali (bellissimi i capitoli che parlano dei musicisti padre e figlio Tim e Jeff Buckley e della Lettera al padre di Kafka) che hanno lo scopo di fornire al lettore degli «appigli» per non essere interamente trascinato in tutti i non risolti di un tradimento, di una colpa, e forse anche… di un perdono sui generis.

    Perché leggerlo? Perché la penna di Andrea Pomella è tra le migliori in Italia oggi. Inoltre, perché la letteratura è fatta anche di confronti e fil rouge e I colpevoli si colloca di diritto e con merito tra i più importanti testi autobiografici scritti negli ultimi anni, insieme a capolavori come Città sola di Olivia Laing, Brevemente risplendiamo sulla terra di Ocean Vuong (recensione sulla Newsletter #4) e a La Straniera di Claudia Durastanti (intervistata sul numero 44 della Rivista per le Medical Humanities).

    Una citazione dal libro: «Abbiamo lo stesso tono, identico il fluire delle frasi, l’ascesa e la discesa, le pause e le attese tra una parola e l’altra. […] Ho ereditato da te anche questo, non l’ho assimilato per frequentazione. Se tu fossi fuggito di casa ancor prima che nascessi sarebbe stata la stessa cosa. È affascinante il modo in cui la natura se ne infischia dei nostri traumi».

    Nota: Da il suo I colpevoli Andrea Pomella ha tratto anche un podcast in 4 episodi in cui narra le storie di alcuni grandi della letteratura, della musica, dell’arte e del cinema… «storie di figli che, nel corso della loro vita, si sono persi nell’ombra fitta della figura paterna, che hanno patito la mancanza del padre o che il padre lo hanno combattuto, che hanno tradito e che sono stati traditi».

    Federica Merlo e Nicolò Saverio Centemero

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    Tutti i bambini tranne uno

    Philippe Forest
    Fandango, Roma, 2018

    Philippe Forest è un professore, scrittore e critico letterario e cinematografico. Tutti i bambini tranne uno (titolo originale L’enfant éternel) è il suo primo romanzo e lo scrisse quando aveva 35 anni nel 1997. Nel libro, Forest, racconta ...

    Philippe Forest è un professore, scrittore e critico letterario e cinematografico. Tutti i bambini tranne uno (titolo originale L’enfant éternel) è il suo primo romanzo e lo scrisse quando aveva 35 anni nel 1997. Nel libro, Forest, racconta la vicenda di Pauline, la sua bambina, morta all’età di quattro anni a causa di un osteosarcoma. Non me la sento di definire queste poche righe «recensione», mi capirete... come si fa?! Quello che invece credo abbia senso indicare a chi volesse, come ho fatto io, portare a termine una lettura così profonda e straziante è che le pagine di questo libro, nate dal dolore, sono pagine in cui il dolore stesso non viene mai descritto per trovare salvezza (per Forest non c’è potere terapeutico nella scrittura) o per pietismo, ma per tentare di comprenderlo. Lo scrittore si mette accanto alla sua sofferenza e cerca, attraverso il filtro della scrittura, di rivoltarla, di torcerla, di spremerla nel tentativo di darle un senso.

    Perché leggerlo? Perché Forest si distanzia anni luce dalle molte narrazioni in cui il dolore personale viene usato per creare un’empatia effimera che, però, a mio avviso, una volta riposto il libro lascia al lettore poco o niente. Inoltre, lo scrittore francese è un gigante (leggete la nota a fine libro scritta dalla sua traduttrice italiana Gabriella Bosco... è illuminante!), ed è capace di scomodare mostri sacri quali Hugo, Mallarmé e il Barrie di Peter Pan (Wendy diventa quasi alter ego della piccola Pauline in alcuni passaggi) utilizzandoli come nobilissimi strumenti per quella costante analisi della sofferenza che permea ogni pagina. In ultimo, perché e credetemi, in questo libro troverete anche tanto, tantissimo, amore.

    Una citazione dal libro: «Ormai gli agonizzanti non esalano più l’ultimo respiro. Una lunga lingua di plastica scende nella loro gola passando per le narici […]. Respirano così, assistiti e incapaci del minimo suono. La tecnica batte in velocità il desiderio di dire dei vivi. Tutt’a un tratto è troppo tardi. Non è ancora la morte ma, fuori del sonno comatoso, è già il silenzio».

    Federica Merlo

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