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Sullo scaffale

Consigli di visione, spunti di riflessione, recensioni di film e libri raccolti nel Centro di documentazione della Fondazione Sasso Corbaro.

Recensioni 

  • 9788865643693_0_536_0_75-2
    Piercing

    Ryu Murakami
    Atmosphere, Roma, 2021

    Ryu Murakami! RYU – premessa importante, dato che questo autore giapponese condivide il cognome con l’altro conterraneo più famoso, quello di nome Haruki. Attenzione però, forse solo in Italia Ryu è meno conosciuto del collega, perché ...

    Ryu Murakami! RYU – premessa importante, dato che questo autore giapponese condivide il cognome con l’altro conterraneo più famoso, quello di nome Haruki. Attenzione però, forse solo in Italia Ryu è meno conosciuto del collega, perché in Giappone e altrove, i suoi romanzi (più di una cinquantina) sono molto letti e apprezzati e spesso finiscono riadattati in film di successo. Parlo frequentemente di premi letterari (una mia fissa, perdonatemi)… questo Ryu Murakami, per intenderci, con un altro romanzo che vi consiglio caldamente di leggere, Blu quasi trasparente, ha vinto il più famoso di quelli nipponici, l’Akutagawa.
    Ma ora vengo al libro che vorrei proporvi: Piercing. Pubblicato in patria nel 1994 e in Italia riedito di recente, nel 2021, dall’ottima casa editrice Atmosphere nella collana Asiasphere dedicata a scrittori e scrittrici asiatiche, questo romanzo, che possiamo definire un thriller psicologico, ha per protagonista Kawashima. Uomo apparentemente normale, padre di famiglia e marito innamorato, a un certo punto della sua vita sente di dover commettere un crimine efferato, come spinto da una forza interiore irrefrenabile. Nel corso del libro pian piano scopriamo, tramite indizi sparsi qua e là, che Kawashima da piccolo ha sofferto di abusi da parte della madre e che sente delle voci. L’infanzia difficile e la schizofrenia sono due caratteristiche che, a sua insaputa, il protagonista condividerà con la vittima prescelta, la prostituta Chiaki.
    Se le vicende sono sostanzialmente riassumibili in breve: un uomo malato chiama una prostituta, anch’essa casualmente malata della sua stessa patologia mentale, con l’intenzione di commettere un omicidio senza alcuna ragione che non quella dell’irrefrenabile e inconcepibile spinta interiore che lo guida a commettere questo atto – capite che siamo veramente di fronte a un racconto fuori di testa –, la lettura di questo romanzo vi porterà ad andare oltre i limiti che pongono i generi thriller o horror. Come, infatti, ben spiega Gianluca Croci nell’utile post-fazione, con Ryu Murakami ci troviamo di fronte a un autore che nei suoi romanzi, spesso violenti e fuori dalle righe, «indaga a fondo sul senso di precarietà della società odierna».
    Quindi, se sarete in grado di andare oltre a una lettura superficiale (oh, comunque godibilissima… Ryu Murakami scrive benissimo!) e sopporterete qualche scena… come dire… tosta – sangue e botte, non mancano! – vi renderete conto che all’interno di questo libro (come anche in altri dello scrittore) è forte la critica di una società «dove il continuo flusso di informazioni confina con l’entropia, gli apparati di controllo con le cospirazioni, la memoria con il trauma e l’amnesia» (Maurizio Ascari, citato da Croci nella post-fazione).

    Perché leggerlo? Perché chi legge già questo tipo di romanzi vi dirà che Ryu Murakami è uno dei migliori a scriverli e perché, chi come me, l’ha appena scoperto e ha ancora letto poco di questo autore (ma rimedierò a breve) vi dice che ogni tanto qualche libro sfidante e fuori dalle righe fa molto bene ai nostri neuroni.

    Una citazione dal libro: «Ecco perché la sua più grande paura, ancora più grande di quella della morte, era perdere la vista e l’udito per una malattia o un incidente. Impossibilitato a percepire i suoni e le immagini reali, assalito da un terrore incontrollabile, temeva che sarebbe impazzito in un istante».

    Nicolò S. Centemero
    Newsletter 47 - Dicembre 2023

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  • 13-9
    Still Alice

    Regia di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, USA, 2014

    Perché guardarlo? Ci sono film che per la tua professione sono da guardare per obbligo: sia per la tematica, che per le recensioni che hai letto. In realtà poi, tra una scusa e ...

    Perché guardarlo? Ci sono film che per la tua professione sono da guardare per obbligo: sia per la tematica, che per le recensioni che hai letto. In realtà poi, tra una scusa e l’altra, riesci sempre a evitare di guardarli, come se avessi un presentimento che ti dice che non sarà una visione facile. E dire che sono abituata a vedere film su malattia, malati, famigliari e in fondo “riuscire” in qualche modo a guardarli con l’occhio professionale e quindi con una “distanza” che permette di non avere la storia, i fotogrammi, i personaggi nei pensieri dei giorni successivi. Poi una sera tardi, zappando, te lo ritrovi lì e cominci a guardarlo, senza il filtro della professione, del guardarlo per “lavoro”, ma “esposta totalmente” alla cruda narrazione. Così non solo il film continua a lavorarti in testa durante la notte, ma ti ritrovi anche a scriverne per “esorcizzare” la storia, la biografia, di questa donna che ha alcuni anni più di te, dei figli, un’attenzione alle parole, allo studio, …
    Il film è misurato, essenziale, laico: non c’è una retorica della malattia, del possibile lato positivo. Alice cerca solo di essere ancora Alice: per lei in primo luogo. I famigliari sono realistici nella loro imperfezione, nella loro, a volte, inadeguatezza, nel loro tentare di andare avanti. Andare avanti, senza di lei. O meglio: senza l’essenza stessa di Alice.
    La concezione, l’elaborazione e l’accettazione è, come sempre, la chiave di volta dell’esperienza di malattia anche in questo film. Per ognono dei famigliari arriva con tempistiche differenti. Il marito di Alice, si appiglia alle sue conoscenze mediche per tracciare un confine emozionale netto tra sanità e malattia, dimostrandosi in ultimo incapace di amare una persona così drammaticamente destrutturata. Sarà la figlia minore Lydia ad offrire alla madre una via di fuga attraverso la sua presenza forte ed amorevole, rappresentando un sostegno di straordinaria portata, suggerendo un linguaggio nuovo, fatto di poesia ed emozioni, di parole a volte insensate ma non per questo prive di significato, ritrovando un rapporto con la madre.
    Per Alice è molto più complicato e potrà elaborarlo purtroppo solo fino a quando la memoria glielo permetterà. Mi ha colpito molto una frase che confida Alice a suo marito subito dopo la comunicazione della sua diagnosi: “vorrei avere il cancro”. Alice comunica così l’incontenibile rabbia verso un male che sembra aver colpito l’essenza stessa della sua persona: non il mero esistere biologico ma la vita intesa come quell’esperienza che definisce, caratterizza e completa.

    Una citazione dal film: «Perdo l'orientamento, perdo degli oggetti, perdo il sonno, ma soprattutto: perdo i ricordi. In tutta la mia vita ho accumulato una massa di ricordi che sono diventati in un certo senso i più preziosi di tutti i miei averi: la sera in cui ho conosciuto mio marito, la prima volta in cui ho tenuto tra le mani un libro, la nascita dei miei figli, le amicizie che ho fatto, i viaggi per il mondo... Tutto quello che ho accumulato nella vita, tutto quello per cui ho lavorato con tanto impegno, ora inesorabilmente mi viene strappato via [.....] Sto lottando per restare parte della realtà, per restare in contatto con quella che ero una volta». (Una frase di Alice Howland )

    Recensioni
    «(…) Se il cinema è un territorio inevitabilmente relazionale, Julianne Moore è il punto più intenso della relazione, una luce di evidenza e di chiarezza, che narra e fa conoscere allo spettatore una patologia crudele. Una crepa intima che spezza vene e cuore nella sequenza in cui Alice, riprodotta (sul computer) e 'accesa', parla al suo sé alterato e spento. La malattia al cinema è materia che richiede di connotare le proprie storie di uno spessore nuovo (quello dell'etica) e di una nuova articolazione narrativa. Glatzer e Westmoreland si prendono il rischio e realizzano un film che elude qualsiasi forma di patetismo o di esibizionismo, interrogandosi e misurandosi col dolore muto e ingrato dell'Alzheimer.
    E la loro esposizione artistica finisce per proteggere la nostra fragilità, riconnettendo in una storia dotata di senso, i frammenti sconnessi di esperienza contro cui ci fa sbattere duro la vita. Proprio come fa Lydia (la figlia di Kristen Stewart) con la madre, 'curandola' con la letteratura drammatica. Perché la memoria del bello agisce sui circuiti emozionali, che irriducibili e sbalorditivi sopravvivono a quelli cognitivi. Probabilmente l'amore non impara mai a dimenticare». (Marzia Gandolfi, www.mymovies.it)

    Martina Malacrida Nembrini

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  • 12_7
    Colpa delle stelle

    Regia di Josh Boone
    USA, 2014

    Perché guardarlo? I motivi per cui guardare questo film sono tanti. Innanzitutto tocca una tematica difficile da affrontare, quello del cancro giovanile, e lo fa con una semplicità e una sensibilità disarmanti. Attraverso ...

    Perché guardarlo? I motivi per cui guardare questo film sono tanti. Innanzitutto tocca una tematica difficile da affrontare, quello del cancro giovanile, e lo fa con una semplicità e una sensibilità disarmanti. Attraverso questa difficile tematica il regista mette in luce un altro tema importante: lo status di malato che non deve prevaricare sulla persona. In questo film i due giovani lottano contro il loro status di persone malate che parenti, specialisti e il gruppo di auto aiuto gli etichettano addosso, trovando uno nell’altra qualcuno che li accetti come persona, come giovani, come uomo e come donna. I due si prendono cura di questo loro essere persone prendendosi finalmente la libertà di amare, di sperimentare il proprio corpo, di provare emozioni e sentimenti proprio come i loro coetanei. Si appassionano e coltivano le loro passioni rimanendo al di sopra della loro malattia. Il viaggio ad Amsterdam è la chiave di volta tra il viversi malati e viversi come persone, come ragazzi adolescenti che scoprono il mondo. La scelta di affrontare questa delicata tematica del paziente-persona attraverso dei personaggi giovani e adolescenti è una scelta che rende il messaggio ancora più potente. Ogni paziente ha diritto di essere preso in cura prima come persona e non come malato. La vera cura è quella che si prende a carico la persona, non semplicemente il suo stato di malattia, perché non è la malattia che va curata, ma la persona nel suo essere tale.

    Note collaterali: il film è ispirato al romanzo di John Green, il quale per il titolo si è ispirato all’opera Giulio Cesare di Shakespeare. In particolare il passaggio in cui Cassio dice a Bruto: «There is planty of fault in our stars. the world is a profoundly unjust place in which suffering is unfairly distributed».
    La traduzione italiana dice: «La colpa, caro Bruto, non è delle nostre stelle, ma nostra, se siamo dei subalterni».
    L’autore ha girato il senso della frase, tornando a dar la colpa alle stelle, ad un destino a volte troppo duro da accettare e al quale i protagonisti trovano modo di ribellarsi.

    Recensioni
    «Da un po' di tempo è uso annunciare quasi ogni film come "attesissimo, ma in questo caso, il superlativo non dovrebbe essere lontano dalla verità. Il romanzo di John Green da cui Colpa delle stelle deriva è un successo planetario (occupa anche il vertice della classifica italiana dei più venduti); Vanity Fair dedica la copertina al giovanissimo protagonista; in America il film, costato una dozzina di milioni, ne ha raccolte tre centinaia. Pura operazione di marketing, basata su una variante di "cinema del dolore"? Il soggetto può farlo temere. La diciassettenne Mazel Grace ha un cancro incurabile alla tiroide e i suoi polmoni funzionano sempre peggio, obbligandola a respirare da una bombola d'ossigeno. Entrata riluttante in un gruppo di assistenza psicologica, la ragarza vi conosce Gus, poco più grande di lei, anche lui malato e che presto dichiara di amarla. Ciascuno a suo modo, entrambi sono appassionati di libri; lei, in particolare, è ossessionata da un romanzo intitolato An imperial affliction, di cui ha invano cercato di conoscere l'autore, Peter Van Houten. Gus riesce invece a raggiungere lo scrittore: Hazel Grace potrà incontrarlo ad Amsterdam, dove l'uomo vive in volontaria reclusione. Si parte con grandi aspettative. Però gli autori celebri non si mostrano necessariamente all'altezza dei loro libri; e invece il ragazzo le è sempre accanto, con la sua offerta d'amore. Tirate fuori i fazzoletti: ma una volta tanto per una buona causa. Anche chi non sopporta il "cancermovie", filone di pellicole quasi sempre ricattatorie e farcite di pathos a comando, ammetterà probabilmente che questa è un'eccezione alla regola. Seguendo con fedeltà il romanzo di Green (il giovane scrittore americano è una web-star con milioni di fan, che Time ha inserito nella classifica delle cento persone più influenti dell'anno), la versione cinematografica alterna scene anche dure e dolorose (come quelle, in flashback, della malattia di Hazel) con tocchi di humour, affidati ai due giovani protagonisti e al loro simpaticissimo amico Isaac. Hazel e Gus, infatti, vivono un breve amore dove la malattia e la prospettiva della morte sono ben presenti; però sanno portare sulle cose uno sguardo pieno di fantasia e di passione. Da Romeo e Giulietta a Titanic, la letteratura e il cinema grondano di amori impossibili, estasi di un'unica notte, coppie con un solo sopravvissuto. Un sottofilone ben noto è quello del "cancer movie", appunto: capostipite l'artiflcioso Love story, epigono tra gli altri- l'insopportabile Autumn in New York. Con simili premesse, c'era da tremare al pensiero che ciò che il film avrebbe potuto essere. E invece, nella screenplay dagli sceneggiatori della commedia romantica 500 giorni insieme, Scott Neustadter e Michael H. Weber, la storia si riveste di una grazia e di una lievità inaspettate cui è difficile restare indifferenti. Non che il film sia perfetto: è un po' troppo lungo, soprattutto nei risvolti turistici dell'episodio di Amsterdam (che comunque ha i suoi perché: la visita aVan Houten, quella alla casa-museo di Anna Frank). I protagonisti sono Shailene Woodley (era la figlia maggiore di George Clooney in Paradiso amaro) e Ansel Elgort, visti entrambi nel blockbuster fantascientifico Divergent, supportati da veterani come Laura Dern (la madre) e Willem Defoe (il cinico scrittore "cult" in simil Thomas Pynchon). Se poi i più duri e puri tra gli adepti della verosimiglianza obietteranno che difficilmente dei malati terminali potrebbero essere così belli e amabili, sarà bene ricordare loro che si tratta di cinema».
    (Roberto Nepoti, La Repubblica, 7 settembre 2014)

    Martina Malacrida Nembrini

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    Léon

    Regia di Luc Besson
    Francia /USA, 1994

    Perché guardarlo? Potrebbe essere la trama di un qualsiasi film d’azione con sparatorie, killer e sequenze mozzafiato, ma tutto questo fa solo da corollario alla vera storia del film che Luc Besson ...

    Perché guardarlo? Potrebbe essere la trama di un qualsiasi film d’azione con sparatorie, killer e sequenze mozzafiato, ma tutto questo fa solo da corollario alla vera storia del film che Luc Besson racconta con maestria. Una storia di cura, quella tra Léon e Matilda, dove ognuno cerca di prendersi cura dell’altro nel modo migliore che conosce, secondo il proprio percorso di vita. I due personaggi sono soli, senza radici, entrambi bisognosi di qualcuno che si prenda cura di loro e trovano nell’altro proprio quel qualcuno.
    La differenza d’età è un’altra trovata del regista per uscire dagli schemi, scongiurando i cliché della classica storia d’amore. Il sentimento, l’affetto che cresce tra i due è semplice frutto del rapporto di cura che si instaura tra i due. Non esistono pazienti e non esistono curanti in questo film, o forse convivono nell’animo dei protagonisti, come convivono in ognuno di noi. Il coraggio di chiedere cura, l’umiltà di accettarla, l’impegno di prendersi cura e farsi prendere in cura. Due personaggi così diversi ma accumunati dallo stesso bisogno di cura e dal piacere di scoprire che prendersi cura di qualcuno, alla fine, è l’inizio per prendersi cura di sé e ritrovare un terreno per le proprie radici.

    Critiche
    «II primo film nuovayorkese dello snob francese Besson, da tempo inattivo, proseguendo nella poetica che gli ha dato gloria con 'Nikita', e formalmente molto seducente, trascina lo spettatore in un vortice di sensazioni mai casuali, gestite con un ritmo ineluttabile di cinema, muovendo un racconto variopinto, cinico, divertente e oltraggioso. Dove non solo Jean Reno, truccato alla Sergio Leone ma anche alla Salvatores, è eccezionale nel dare un'ottusa, bieca tristezza al killer che cura le piante, cucina col guanto a maialino e fa i piegamenti, ma anche l'esibizionista Gary Oldman sembra un vampiro, una scheggia freudiana impazzita; e da ex 'Beethoven' pronuncia battute di nemesi storica. Infine Danny Ajello fa l'oste mafioso e banchiere e la debuttante Natalie Portman, con tutti i suoi eccessi e le sue sgradevolezze, la sigaretta e lo sguardo obliquo, sembra nata dentro questa storia che le si attorciglia addosso. (...) Il racconto non ha cadute di tono, la cinepresa crea un'altra realtà di mali odori, carne sfatta, marciume: è l'apoteosi del mezzo cinematografico, anche a rischio di restare con la sola facciata, alla Gaudì. Nel mezzo di un inferno dl pallottole appare anche una Madonnina che eccezionalmente non piange; viene anche lei sparata».
    (Maurizio Porro, Il Corriere della Sera, 13 aprile 1995)

    «Il più bel film di Clint Eastwood, Bird, era dedicato 'a Sergio (Leone) e Don (Siegel)', due figure decisive nella vita e nel cinema del regista-attore. L'ultimo lavoro di Besson non porta dediche in testa ma iscrive il suo 'padrino' direttamente nel titolo: Léon. La scena d'apertura parla chiaro: primissimi piani, Little Italy, un killer assoldato dai mafiosi, uno sguardo sull'America sovraccarico di mitologia, eccetera. Che Besson invece possa fregiarsi del titolo di erede di Leone è un altro paio di maniche».
    (Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 13 aprile 1995)

    «Léon' è, alla base un film d'amore e di sentimenti. Ma il suo universo a fumetti (guardate i primi cinque minuti, con quei dettagli ravvicinatissimi alla Liechtenstein) è attraversato dalla violenza elettrica di Gary Oldman, bravissimo e terrificante nella sua furia esplosiva come l'agente antidroga corrotto che ascolta Beethoven, si fa, strafà e diventa tutto rosso sotto l'occhio della cinepresa. E in questa fiaba nera, che usa pezzi di realismo cinematografico per comporre un racconto assolutamente irrealistico, l'incalzare continuo della musica accompagna un montaggio di precisione cronometrica e sigla l'atmosfera delle diverse situazioni: un ulteriore esercizio di stile, perfetto ma eccessivo, che si aggiunge a un film troppo stilizzato, calcolato, metacinematografico per convincere davvero».
    (Irene Bignardi, La Repubblica, 21 aprile 1995).

    Martina Malacrida Nembrini

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  • 10-3-2
    Forrest Gump

    Regia di Robert Zemeckis
    USA, 1994

    Perché guardarlo? Il film spazia su circa trent'anni di storia degli Stati Uniti d'America: Forrest, seduto su una panchina, comincia a raccontare la propria vita, sin da quando era un bambino. Raccontando le ...

    Perché guardarlo? Il film spazia su circa trent'anni di storia degli Stati Uniti d'America: Forrest, seduto su una panchina, comincia a raccontare la propria vita, sin da quando era un bambino. Raccontando le proprie vicende Forrest incontrerà tre presidenti, icone come Elvis e John Lennon, stabilirà un nuovo clima di pace tra Stati Uniti d'America e Cina attraverso il ping pong, parteciperà alla guerra del Vietnam e a un raduno hippy, senza tuttavia rendersi realmente conto di quanto tutto questo fosse straordinario. Il fil rouge che si nasconde nella trama è il rapporto speciale con Jenny, che conosce sin dall’infanzia.
    Proprio il rapporto con Jenny è l’elemento su cui si basa il film. Un rapporto nato tra i banchi di scuola e che in varie fasi della vita di Forrest ricompare in varie forme. Tra i due c’è un rapporto di cura che va al di là di ogni evento storico, di ogni moda, di ogni tempo. Se prima Jenny difenderà il piccolo Forrest dai bulli, lo sosterrà nelle sue imprese seguendolo silenziosamente, cosi Forrest saprà strappare Jenny dalle cattive compagnie e abitudini. Un rapporto cosi avaro di tempo, ma di cui entrambi si prendono cura per una vita intera. Alla fine sarà Forrest a prendersi letteralmente cura di Jenny, malata terminale, ma il loro rapporto continuerà a vivere nel piccolo Forrest, figlio di quel tempo avaro, ma anche di quella cura che entrambi hanno saputo dare al loro rapporto.
    La cura dei rapporti, come il rapporto di cura, necessita di qualità e non di quantità. La qualità della cura porta ogni momento vissuto a essere un momento di vita.

    Recensioni
    «Forrest gump, il maggiore successo della stagione negli Stati Uniti, vicenda di un uomo dall'intelligenza tanto limitata da diventare stupidità che percorre di gran corsa trent'anni di Storia americana conquistandosi vittorie, celebrità, ricchezza e amore, è come le macchie del test proiettivo di Rorschach: ognuno ci vede quello che vuole vedere, o quel che é. Allegoria americana, il film tratto da un romanzo scritto nel 1986 dal giornalista Winston Groom ha infatti già suscitato giudizi contraddittori e interpretazioni senza fine: è divertente, è tragico; è una critica radicale a società e istituzioni che consentono la prevalenza del cretino; esalta, in un'epoca di cinismo dominante, l'inalterabile capacità di sperare; rispecchia un presente nel quale intelligenza e spirito critico sono meno apprezzati della fiducia in se stessi e della buona coscienza sociale; loda la bontà generosa, l'energia fattiva, la fedeltà leale alle promesse; irride ogni idealismo degli Anni Sessanta; è oltraggiosamente conservatore, è sottilmente progressista. [...]».
    (Lietta Tornabuoni, La Stampa, 21 Ottobre 1994 )

    «Forrest Gump o test di Rorschach? Il film di Robert Zemeckis che ha conquistato Venezia, e che prima ancora di uscire in Italia aveva già conquistato gli Stati Uniti con incassi stratosferici raramente raggiunti da un film “per adulti”, rappresenta un caso singolare di film-cartina di tornasole, di film-test, di film-crinale. Insomma, dopo tanti film-giocattolo, tanti film-otto volante, tanti film-confezione regalo, finalmente un film che, al di là del divertimento e delle emozioni, suscita il piacere e la necessità di discutere e interpretare. E non c’è dubbio che, se si usasse ancora l’aborrito “segue dibattito”, se ne sentirebbero delle belle. Magari anche che il bravissimo Tom Hanks, come ha scritto qualcuno, è troppo bravo e punta all’Oscar.
    Come si è capito dalla critica italiana a Venezia 1994 e come si può leggere nelle recensioni americane e inglesi, Forrest Gump si offre a due letture completamente diverse: e per questo si parlava di film-test. Forrest Gump, che incontriamo mentre aspetta un autobus e racconta ai suoi vicini di panchina la sua avventurosa esistenza “all amencan”, è un povero di spirito, un idiota quasi dostoevskijano nella sua gentilezza d’animo, una piuma al vento della storia (ed è molto bella e magica la sequenza iniziale, metà in diretta, metà al Computer Graphics, di una piuma, appunto, che svolazza sui titoli di testa fino ad approdare ai piedi di Forrest in attesa). È un uomo qualunque che ha sconfitto il suo handicap (il piccolo Forrest non poteva camminare normalmente), che attraversa la vita letteralmente di corsa, conquista la laurea a forza di vittorie sportive, sopravvive al Vietnam, si comporta da eroe per caso, diventa miliardario, si pente, percorre il suo paese da costa a costa, incontra i grandi dei suoi anni, ama incoercibilmente il primo amore, sempre restando un adorabile idiota, sempre fedele ai motti che gli insegnava la sua mamma nella vecchia casa dell’Alabama.
    Inutile dire che una vecchia volpe dello spettacolo come Robert Zemeckis, al suo primo incontro con un film che ambisce a essere un pezzo di storia americana, ci mette dentro tutto quello che il suo curriculum gli ha insegnato: la leggerezza e il senso della storia di Ritorno al futuro, la maestria degli effetti e dei contrasti di Roger Rabbit, i trucchi e la critica crudele di La morte ti fa bella. Ma rimescolati in un blend fluido e godibilissimo, ironico e tenero, affettuoso e crudele che ci accompagna (con una colonna sonora così bella ed evocativa da essere quasi ruffiana) attraverso quarant’anni di storia, dalle prime battaglie universitarie antisegregazioniste, attraverso il Vietnam, Kennedy, Johnson, Mao, Nixon, il Watergate, le Pantere nere, la musica pop, gli spinelli, le grandi mance pacifiste, sino ai primi anni ottanta.
    Di ogni momento Forrest Gump - l’Everyman che sa sempre adattarsi all’esistente, lo Zelig della Storia, il Simplicissimus che attraversa la vita con il solo patrimonio della sua gentile stupidità - è, in un modo o nell’altro, il coprotagonista. Laureato a forza di gambe, eroe per la stessa ragione, campione di ping-pong per idiotico talento e di conseguenza ambasciatore dello sport americano in Cina, industriale della pesca per fiducia nell’amicizia, guru senza volerlo perché nel suo correre tra l’Atlantico e il Pacifico la massa degli altri idioti vede un messaggio che non c’è, Forrest Gump appare (grazie agli effetti speciali) accanto a Kennedy, mostra il sedere ferito in battaglia a Johnson (che si diverte un mondo), suggerisce a Lennon le parole di Imagine (così come aveva suggerito a Presley, ai tempi pensionante sconosciuto di sua madre, il celebre “pelvis movement”: ed è vero che una gag non molto diversa si vedeva in Ritorno al futuro, ma ci si diverte lo stesso); e farebbe dichiarazioni imbarazzanti sul Vietnam a un raduno davanti alla Casa Bianca se un “falco” non provvedesse a staccare i microfoni. Per tutta la vita, infine, Forrest ama la stessa donna (Robin Wright), che incarna invece l’America problematica, inquieta, eternamente alla ricerca di qualcosa - musica, sesso, oblio, giustizia sociale, illusione politica - forse impossibile da trovare. E il personaggio di Jenny uno dei principali capi d’accusa contro Forrest Gump (il film), e il suo destino sfortunato (poiché passa di illusione in illusione, di errore in errore, di moda culturale in moda culturale, finendo per morire, un po’ anticipatamente, di una malattia che si direbbe Aids), è la principale prova a carico che dovrebbe dimostrare come Zemeckis porti avanti un discorso sostanzialmente reazionario.
    L’innocente di un’America alla Norman Rockwell batte ai punti le inquietudini dell’America inquieta? Sì. Ma non perché Zemeckis sposi questa convinzione. Sarebbe come sostenere che Edgar Lee Masters auspicava per gli abitanti di Spoon River i loro drammatici destini. Al contrario: facendo di Forrest un eroe della categoria tutta anglosassone della “serendipity” (secondo il Webster “l’attitudine a fare scoperte fortunate per caso”), Zemeckis sottolinea con dolorosa ironia quanto sia più facile e spesso remunerativo adattarsi, seguire la corrente, restare profondamente conformisti, farsi poche domande. E, dall’altra parte, quali prezzi abbia pagato una generazione all’utopia, alle speranze politiche, al desiderio di cambiamento. Andate e decidete. Il dibattito è aperto. Ma qualcosa resta indiscutibile: il tono sempre leggero, sempre divertente, spesso toccante di un film originale e bizzarro, che ci accompagna con grazia, intelligenza, commozione, attraverso i nostri ieri».
    (Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996)

    Martina Malacrida Nembrini

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    Midnight in Paris

    Regia di Woody Allen
    Stati Uniti/Spagna, 2011

    Perché guardarlo? L'idealizzazione di un "glorioso passato ormai perduto" è un'aspirazione ricorrente nell'animo umano, in tutte le epoche storiche. A volte si cerca nel passato la cura per accettare la banalità e l'insoddisfazione del ...

    Perché guardarlo? L'idealizzazione di un "glorioso passato ormai perduto" è un'aspirazione ricorrente nell'animo umano, in tutte le epoche storiche. A volte si cerca nel passato la cura per accettare la banalità e l'insoddisfazione del presente. Alla fine il protagonista scoprirà come invece è proprio nel presente, nel momento del dolore, che occorre trovare la cura, senza rifugiarsi in un passato onirico. Gil saprà ripartire dal momento che imparerà a prendersi cura delle sue aspirazioni e dei suoi sogni nel presente. A volte per curarsi bisogna fare i conti con se stessi, darsi il tempo di curarsi nel proprio tempo e nel proprio corpo.

    Note collaterali: il gioco onirico messo in piedi da Allen per questo film è geniale, l’atmosfera magica che crea attorno all’ambientazione degli anni venti con una magistrale fotografia rende il film stesso un viaggio in epoche passate con personaggi rivisitati e caricaturati giusto quel po’ per rendere la commedia gustabile e sempre delicata.

    Martina Malacrida Nembrini

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  • onknsca
    Quasi amici

    Regia di Eric Toledano e Olivier Nakache
    Francia, 2011

    Perché guardarlo? Chi cura chi? Questo potrebbe essere il sottotitolo del film ed è il fulcro della narrazione. I protagonisti sono due persone molto diverse tra di loro sia per classe sociale ...

    Perché guardarlo? Chi cura chi? Questo potrebbe essere il sottotitolo del film ed è il fulcro della narrazione. I protagonisti sono due persone molto diverse tra di loro sia per classe sociale ma anche per età e per formazione professionale. Philippe, ricco aristocratico e tetraplegico assume Driss, un ragazzo di periferia con un passato turbolento, come badante. Una relazione professionale che si trasforma in relazione di cura. Un rapporto di cura che migliora le vite di entrambi: curante e curato. Un curarsi reciprocamente: dal curare al prendersi cura.

    Un consiglio di visione: guardatelo nella versione originale in francese con i sottotitoli in italiano. Non c’è paragone e si ride a crepapelle.

    Note collaterali: si tratta del film più visto di sempre in Francia e anche di una storia realmente accaduta.

    Recensione: «Un’amicizia che tocca il cuore e conquista» (Il Corriere della Sera)

    Martina Malacrida Nembrini

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  • nl #2
    Roman d’ados

    Regia di Béatrice Bakhti
    Svizzera, 2002-2008

    Perché guardarlo? 7 anni, 7 vite, 4 film e l’adolescenza in tutta la sua appassionante vitalità. Rachel, Thys, Virginie, Jordann, Aurélie, Xavier e Mélanie si raccontano, descrivono la loro vita durante questi 7 anni ...

    Perché guardarlo? 7 anni, 7 vite, 4 film e l’adolescenza in tutta la sua appassionante vitalità. Rachel, Thys, Virginie, Jordann, Aurélie, Xavier e Mélanie si raccontano, descrivono la loro vita durante questi 7 anni di grandi cambiamenti fisici ed emotivi. Il tratto del documentario è apparentemente leggero e spensierato, ma le tematiche trattate sono quelle complesse e a volte difficili del percorso di crescita. La regista riesce a portare gli spettatori nel vissuto dei protagonisti e si sente la mano femminile, materna, accogliente: permette loro di esprimersi con la massima riservatezza, con i propri tempi - i ragazzi possono videoregistrarsi – e con le loro incertezze e paure. Gli adulti sono i protagonisti secondari della narrazione: ci sono, si mettono in gioco, accompagnano come possono i loro figli in questo periodo particolare. Non vi è giudizio alcuno: né verso gli adulti, né verso gli adolescenti. C’è solo la narrazione e l’affetto reciproco che si è instaurato attraverso questa relazione privilegiata.

    Un consiglio di visione: guardateli tutti e 4 d’un fiato, così crescerete e vivrete assieme a loro.

    Recensioni
    «C’est fascinant, brutal et sensible, tragique et drôle, prenant». (L’Hebdo)
    «L’évènement…pures merveilles d’observation et de vérité…». (Avant Première)
    «…un document absolument passionant, un véritable feilleton du réel…». (Passion cinéma)

    Martina Malacrida Nembrini

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