Libri
- HERSCHT 07769
László Krasznahorkai
Bompiani, Milano, 2022László Krasnahorkai, all’ultima assegnazione del premio Nobel per la letteratura il mese scorso era in lizza tra i possibili vincitori. Ed è ...
László Krasnahorkai, all’ultima assegnazione del premio Nobel per la letteratura il mese scorso era in lizza tra i possibili vincitori. Ed è così, ormai, da parecchi anni. Non bastasse, per sottolineare quanto questo scrittore ungherese si collochi di diritto tra le figure più importanti nell’attuale panorama letterario, aggiungo, solo per fare un esempio, che nel 2015 il suo splendido Satantango (da cui nientepopodimeno che Béla Tarr ha tratto un film di, udite, udite, sette ore e mezza!) ha vinto l’International Man Booker Prize.
L’ultima fatica di Krasznahorkai, uscito in patria nel 2021 e portato in Italia recentemente da Bompiani, che ne pubblica tutta l’opera nell’ottima traduzione di Dora Varnai, è HERSCHT 07769, romanzo in una sola frase, senza punti, di quasi 500 pagine. Eh, sì, già.
Tuttavia, se state pensando che sia la solita opera priva di trama, incomprensibile o noiosissima… beh, grave errore. Primo, perché dopo qualche riga vi sarete già totalmente scordati della punteggiatura e starete leggendo con gusto e ritmo una delle prose più belle in circolazione. Secondo, perché le vicende del protagonista Florian Herscht, abitante di un piccolo borgo della Turingia di nome Kana, vicino alla città di Jena (il romanzo è tutto ambientato in Germania), vi trascineranno pagina dopo pagina, costringendovi a uno sforzo notevolissimo quando proverete a mollarle.
Ma di cosa parla questo libro? Allora, davvero difficile, se non impossibile provare a scriverlo. Più ci penso e più penso che, volendo riassumere in poche parole quanto c’è al suo interno, direi che Krasznahorkai ha tentato di descrivere a suo modo e con una certa ironia quello che potrebbe accadere nel nostro contemporaneo in un qualsiasi paese di provincia quando, per svariate ragioni che purtroppo ben conosciamo – odio razziale, diffidenza nei confronti del diverso, l’arrivo di una malattia che minaccia la nostra salute – si inizia a sospettare, ad aver paura e a dare colpe a chi ci sta attorno.Perché leggerlo? Questa volta è una motivazione un po’ egoista, ma direi perché mi piacerebbe che qualcuno più esperto di quanto non lo sia io di musica classica e in particolare di Bach, fosse in grado di cogliere le ragioni per le quali il sottotitolo di questo libro sia «il romanzo Bachiano di Florian Herscht» e perché Bach e la sua musica siano così tanto presenti (e poi magari, una volta scoperte, mi contatti e me le spieghi 🙂 ).
Una citazione dal libro: «[…] perché l’arte di Bach è una STRUTTURA STABILE, e rimarrà tale per sempre, è come l’ideale, come un cristallo perfetto, come la superficie di una goccia d’acqua, indecifrabile nella sua stabilità, indecifrabile nella sua perfezione, e anche se ovviamente la si poteva mettere per iscritto, non poteva essere afferrata, colta, capita, perché l’essenza della musica si sottraeva al gesto intellettuale che cercava di afferrarla, perché c’è qualcosa che non siamo capaci di fare, pensò il cervello di Florian, e questo è naturale, e cioè capire il perché la perfezione non abbia in realtà un’essenza, perché dobbiamo dire che la perfezione semplicemente esiste, ma senza un’essenza, quando non ci rimane altro che l’ammirazione, questo pensò il cervello di Florian, […]»
Federica Merlo
Newsletter 34 - Novembre 2022ChiudiLeggi la recensione
- Eroina
Vanessa Roghi
Einaudi, Torino, 2022Eroina – Dieci storie di ieri e di oggi, uscito nella collana, ormai cult, ...
Eroina – Dieci storie di ieri e di oggi, uscito nella collana, ormai cult, Strade Blu di Mondadori nell’ottobre di quest’anno mi ha spiazzato. Sì! Mi ha spiazzato perché tutto mi sarei aspettata di leggere nel 2022 tranne che un saggio storico – ben scritto e con una cura meticolosa per fonti e citazioni – che racconta la storia della malattia da eroina in Italia. Perché, se è vero che di recente la serie televisiva «SanPa» sulla comunità di San Patrignano di Vincenzo Muccioli e qualche incursione di notizie dagli Stati Uniti rispetto alla crisi degli oppiodi che sta mietendo moltissime vittime (100.000 morti per Fentanyl e altri oppioidi solo nel 2021 negli States!) abbiano contribuito a riportare una certa attenzione nei confronti di questa sostanza, sono anni che di eroina se ne parla pochissimo, come se il «problema» non esistesse più. E, purtroppo, non è affatto così.
Vanessa Roghi, che da tempo invece si occupa di malattia da eroina (si legga anche un altro suo libro, Piccola città. Una storia comune di eroina (2018)) ha quindi il merito, non solo di mantenere alta l’attenzione ma anche di ribadire, attraverso uno sguardo – mi si conceda il termine – «sociale», che la malattia da eroina è ancora una realtà (vengono portati anche esempi attuali nel testo) e che in quanto tale va affrontata mettendo «in campo tutti i tipi di interventi necessari ad affrontarla. Perché una malattia sociale deve prevedere una convivenza di qualche tipo con i malati. Anche perché la malattia da eroina, come moltissime malattie, non prevede in molti casi una guarigione totale».
Vale inoltre la pena sottolineare come l’autrice abbia anche inserito delle pagine lucidissime sulla trasformazione del drogato eroinomane da problema «reale» e «serio» a «flagello», negli anni in cui arrivarono in Italia i primi casi di AIDS (1982).Perché leggerlo? Perché, come scrive Roghi, «anche un libro di storia può essere utile. Perché occorre maggiore informazione, maggiore consapevolezza, a ogni livello» per comprendere gli errori commessi e non ripeterli.
Una citazione dal libro: «Senza dubbio un mondo senza alcuna dipendenza sarebbe migliore: dipendenza da sostanze, da consumi, dipendenza affettiva, dipendenza economica. In attesa di quel giorno dobbiamo concentrarci sulle pratiche che cambiano materialmente in meglio la vita delle persone. «La guarigione è portentosa, salvifica, miracolosa. Definire uno stato di astensione dall’uso di eroina che si protrae da un anno come una guarigione può essere corretto (con molte riserve), ma non è utile ed è pericoloso. Più corretto, saggio e prudente parlare di remissione, che indica la scomparsa dei sintomi della malattia, ma non delle condizioni che l’hanno provocata. La persona rimane vulnerabile, anche se in benessere, e potrebbe ancora esprimere il sintomo. La parola remissione non deve spaventare, non è una svalutazione dello sforzo effettuato, né una minaccia incombente, quanto un termine più appropriato per indicare la scomparsa completa dei sintomi in una malattia cronica, che può recidivare. La remissione, però, può durare tutta la vita.» Facciamo in modo che questa vita sia piena e degna di essere vissuta».
Federica Merlo
Newsletter 34 - Novembre 2022ChiudiLeggi la recensione
- Il dio disarmato
Andrea Pomella
Einaudi, Torino, 2022Andrea Pomella, dopo una trilogia autobiografica composta da Anni luce, L’uomo che trema e I colpevoli (di quest’ultimo ...
Andrea Pomella, dopo una trilogia autobiografica composta da Anni luce, L’uomo che trema e I colpevoli (di quest’ultimo trovate qui la nostra recensione), nel suo nuovo romanzo decide di narrare un fatto di cronaca nera che ha cambiato per sempre la politica e la storia italiana: il rapimento di Aldo Moro.
Prima di approcciare il libro, ero un po’ preoccupata. Ho infatti temuto che questa scelta avesse portato lo scrittore romano a ripetere cose già dette da altri o ad aggiungere materiale al già moltissimo materiale presente – sulla vicenda sono stati scritti miriadi di documenti, articoli e racconti, più o meno fedeli, a quanto accadde il 16 marzo 1978 in via Fani.
Invece, Andrea Pomella, come solo i grandi sanno e devono fare, è stato capace di costruire un’opera nuova, diversa e nella quale si percepisce in ogni riga la sua scrittura, la sua «presenza». Rubando le parole da lui usate in una recente presentazione, quello che ha fatto ne Il dio disarmato è stato sezionare, entrando negli atomi del tempo, i tre minuti dell’agguato, andando alla ricerca di una verità che non è la verità storica (non spetta infatti allo scrittore fare questo, ma agli storici, ai giornalisti, ai magistrati), ma una verità più profonda, «percettiva» di ciò che è stato Aldo Moro e di ciò che di lui è rimasto nel DNA dell’Italia.
Mi sono quindi preoccupata per niente? Sì. Il dio disarmato è l’ennesima conferma di uno scrittore eccellente, capace di confrontarsi con nuove sfide e che riesce sempre a spiazzare il lettore, regalandogli una prosa tra le più eleganti in circolazione e lasciandolo, a libro concluso, pieno zeppo di materia su cui riflettere.Perché leggerlo? In questo caso ce ne sarebbero mille di perché… perché nell’agguato di via Fani morirono cinque persone della scorta – Iozzino, Rivera, Leonardi, Ricci e Zizzi – e non vanno dimenticate; perché Aldo Moro era anche la sua famiglia e Pomella di questo non solo ne è consapevole ma lo racconta in maniera raffinata e mai retorica; perché a scuola troppo spesso la storia vicina fa paura e di conseguenza non la si insegna a dovere – ben vengano libri come questo; perché… per tutti gli altri perché che ci troverete, senz’altro, anche voi.
Una citazione dal libro: «La natura è asciutta e pratica, e ciò che sta per succedere ai protagonisti di questa storia, presto o tardi succederà a me che scrivo e a te che stai leggendo, succederà ai nostri figli e ai figli dei nostri figli, al nostro migliore amico e al nostro peggior nemico, e per ognuno ci sarà, senza saperlo, quell’ora, il prima, l’ultimo primadi uno sconfinato dopo».
Federica Merlo
Newsletter #33, ottobre 2022ChiudiLeggi la recensione
- La più recondita memoria degli uomini
Mohamed Mbougar Sarr
Edizioni e/o, Roma, 2022Diciamo che avere 32 anni, quattro romanzi pluripremiati all’attivo di cui l’ultimo, La più recondita memoria degli uomini, ha ...
Diciamo che avere 32 anni, quattro romanzi pluripremiati all’attivo di cui l’ultimo, La più recondita memoria degli uomini, ha vinto uno dei riconoscimenti letterari più importanti e prestigiosi al mondo, il francese prix Goncourt nel 2021, non è cosa che capita di frequente? Diciamolo. E allora, prima di tutto, chapeau allo scrittore senegalese Mohamed Mbougar Sarr!
Fatte queste doverosissime premesse… ad oggi La più recondita memoria degli uomini è non solo tra i libri più belli da me letti quest’anno, ma anche quello che mi è «rimasto dentro» di più (come dicono quelli bravi). Le ragioni sono svariate ma probabilmente tutte ascrivibili, alla fin della fiera, al fatto che questo è un romanzo che trasuda letteratura da tutti i pori (quindi wow!). E non solo, sulla letteratura ci riflette pure e lo fa alla grande. E poi la cosa straordinaria (nel senso di fuori dall’ordinario) è che questa riflessione non è fine a sé stessa (beninteso, non ci avrei visto comunque nulla di male anche fosse stato così) ma continuamente e sapientemente legata al tema gigantesco di cui Sarr ci vuole parlare e cioè, quello dell’identità di uno scrittore (degli scrittori) nero (neri) immigrato (immigrati) in Francia, da un’ex-colonia francese, ai giorni nostri.
Ma la domanda adesso è, come cavolo riesco a dirvi di più di queste 432 pagine, nelle quali troviamo un protagonista, il giovane scrittore Diégane Latyr Faye, caratterizzato in maniera sublime (parecchio autobiografico, eh), tanti personaggi interessantissimi che gli ruotano attorno, un libro misterioso, Il Labirinto del disumano, l’unico della produzione di uno scrittore africano poi svanito nel nulla, che cambia le vite di chi lo legge e sulle cui tracce si butta, ovviamente, il protagonista e poi tanta, tanta meta-letteratura sparsa qua e là… su dai, capite bene che l’impresa è impossibile e si rischierebbe un pasticcio peggio di quello fatto sin qui. Ma che vi devo dire, dò la colpa all’entusiasmo del lettore, perché quando a noi ci capitano queste epifanie… ciao. Quindi, leggete Sarr. Punto. E, viva la letteratura. Punto.Perché leggerlo? Mi gioco il perché più semplice, che poi è anche quello che si trova nelle prime quattro righe della recensione. È inutile, il prix Goncourt rimane, ad oggi, una garanzia di assoluta qualità (non sbaglia un colpo, insomma!).
Una citazione dal libro: «Un vero scrittore, aveva aggiunto, suscita discussioni mortali tra i veri lettori, che sono sempre in guerra; se non sei pronto ad affrontare il terrore nell’arena pur di accaparrarti la sua carcassa come nel gioco del buzkaschi, lèvati dai piedi e vai a morire nella tua pisciatina tiepida che scambi per birra di qualità: sei tutto meno che un lettore, e ancora meno uno scrittore».
Nicolò S. Centemero
Newsletter #33, ottobre 2022ChiudiLeggi la recensione
- Una vita dolce
Beppe Sebaste
Neri Pozza, Vicenza, 2022Beppe Sebaste è uno scrittore emiliano classe ’59, laureatosi a Bologna con Luciano Anceschi e amico, tra gli altri, del compianto fotografo Luigi Ghirri, che ...
Beppe Sebaste è uno scrittore emiliano classe ’59, laureatosi a Bologna con Luciano Anceschi e amico, tra gli altri, del compianto fotografo Luigi Ghirri, che nel libro appare così: «seduto di spalle su una sedia di vimini a contemplare il mondo – quel mondo che ci insegnava a vedere e ci invita a guardare sempre di nuovo, come il grande cortile della reggia di Versailles punteggiato di turisti a colori».
La sua ultima fatica si intitola Una vita dolce. Uscito in maggio tra i Bloom di Neri Pozza, collana che sta sfornando un capolavoro dietro l’altro – Due vite di Emanuele Trevi (recensione) e Un uomo sottile di Pierpaolo Vettori (recensione) (quest’ultimo sarà ospite on-line della Fondazione il 14.09) sono solo due esempi – questo romanzo è tanto bello quanto difficile sia da definire che da raccontare. Per tale motivo, mi permetto di rubare le parole scritte da Mauro Portello in un articolo uscito sulla la rivista on-line Doppiozero, perché credo si avvicinino molto a quanto voglia essere Una vita dolce: «il fluttuare dei pensieri che liberamente si incontrano e si scontrano, e poi sbattono contro la malattia di S., contro il “velo di cemento”, come lei lo definisce, cioè “l’invisibile e spesso insormontabile separazione o estraneità tra sé e tutto il resto, le cose, le parole, i pensieri, e naturalmente se stessa”». Infatti, con una frammentarietà che non disturba il lettore e tra le tante citazioni musicali, letterarie, artistiche e cinematografiche, Sebaste ci consegna una meravigliosa – e meravigliosamente scritta! – storia di sé e del rapporto con la compagna S. all’inizio dello «svaporarsi della memoria» di quest’ultima a causa della malattia di Alzheimer.Perché leggerlo? Perché, pur non essendo un libro soltanto sull’Alzheimer – chi lo leggerà si accorgerà di quanti contenuti io abbia dovuto escludere in questo spazio di poche righe – in Una vita dolce, Sebaste è stato capace di parlare con franchezza di chi direttamente o di riflesso questa malattia la vive, in tutte le sue manifestazioni, da quelle più tragiche «I pazienti sono impediti proprio laddove più dolorosamente pulsa l’organo che sovrintende alla sorgente delle parole, cioè del mondo» a quelle più quotidiane «“che fai, ti metti i pantaloni?” e lei risponde ridendo: “no, no, me li tolgo”. Invece li sta infilando, e per poco non discutiamo perché le faccio notare la differenza».
Una citazione dal libro: «Per questo continuo a scrivere. Lei sa che sono alla ricerca di frasi pulite, possibilmente quasi perfette, non per addobbarci ma spogliarci. Approva la disperazione capace di creare e donare energia. Le faccio leggere quello che scrivo e non so che cosa sia, salvo ‘una cosa nuova’. Chi più sapiente di lei, per la quale tutto è ogni volta nuovo e sempre uguale, come il jazz e le carezze?».
Federica Merlo
Newsletter #32, settembre 2022ChiudiLeggi la recensione
- Cuori fanatici
Edoardo Albinati
Rizzoli, Milano, 2019La letteratura tra i suoi moltissimi pregi ha quello di poter essere un «bene rifugio» al quale affidarsi quando abbiamo ...
La letteratura tra i suoi moltissimi pregi ha quello di poter essere un «bene rifugio» al quale affidarsi quando abbiamo bisogno di certezze… quando abbiamo bisogno di non sbagliare libro. Nel mio caso, uno degli scrittori «rifugio» è, senza dubbio, il vincitore del premio Strega 2016, Edoardo Albinati.
Cuori Fanatici, primo tassello di una trilogia di romanzi intitolata Amore e ragione, pubblicati dopo l’enorme successo de La Scuola Cattolica (premio Strega 2016), narra le vicende di alcuni personaggi principali – Nanni, professore trentenne padre di tre bambine, sua moglie Costanza e Nico, giovane e promettente scrittore nonché migliore amico di Nanni – e di tanti personaggi secondari, tutti accomunati dal vivere un’esistenza in costante balia di desiderio e razionalità… amore e ragione, appunto.
Albinati, maestro nel raccontare la borghesia romana, con Cuori Fanatici è riuscito a regalare ai lettori un romanzo che unisce alle tante storie che si intrecciano una profondità di pensiero rara. Inoltre, grazie alle sue straordinarie capacità stilistiche e formali, il libro diventa un piacere di lettura del quale gli amanti della grande letteratura non dovrebbero privarsi. Intesi?Perché leggerlo? Perché dal 30 agosto, con l’uscita del terzo capitolo, Uscire dal mondo, la trilogia Amore e Ragione è finalmente completa e coloro che si saranno innamorati dell’Albinati di Cuori Fanatici, avranno, da subito, anche gli altri due capitoli a loro disposizione.
Una citazione dal libro: «Da quel nudo elenco di disillusioni. Si scopre che le cose corrispondono ai luoghi comuni che da millenni li avvolgono. Che le persone sono bugiarde, e i soldi contano, che si invecchia davvero e invecchiando si diventa conservatori e miopi quanto da giovani si era fanatici».
Federica Merlo
Newsletter #32, settembre 2022ChiudiLeggi la recensione
- I racconti
Daniele Del Giudice
Einaudi, Torino, 2016Il 2 settembre dell’anno scorso, all’età di 72 anni, ci lasciava – dopo essere già «svanito» da molto tempo a causa della malattia di ...
Il 2 settembre dell’anno scorso, all’età di 72 anni, ci lasciava – dopo essere già «svanito» da molto tempo a causa della malattia di Alzheimer che lo colpì precocemente – lo scrittore Daniele Del Giudice. Del Giudice, che fu scoperto da Italo Calvino, è purtroppo ancora poco noto al pubblico dei lettori, ma molto amato dai suoi colleghi e riconosciuto dalla critica italiana e internazionale.
I suoi racconti, precedentemente pubblicati in vari volumi, sono stati raccolti in questo I racconti, pubblicato da Einaudi nel 2016 nella prestigiosa collana «Letture», con una bella prefazione del premio Strega Tiziano Scarpa.
Come sempre, è impresa ardua parlare di una raccolta di racconti senza rischiare di focalizzarsi solo su alcuni. In questo caso, tra l’altro, non solo sarebbe un torto a quanto prodotto da Del Giudice ma, considerata la qualità eccezionale di ciascuno, sarebbe praticamente impossibile qualsiasi selezione.
Mi limito quindi a consigliare in maniera spassionata la lettura di questo libro perché, in primis, a mio parere (ma se cercate in giro, scoprirete che non sono la sola a pensarla in questa maniera!) è una delle raccolte di racconti più belle del Novecento italiano. Seconda cosa, ci troverete «tutto» Del Giudice: la sua prosa «illuminista», razionale, minimale, precisa e tuttavia capace di coinvolgere il lettore in maniera quasi magica e incomprensibile. E infine, questo I racconti è la maniera migliore per conoscere Del Giudice, innamorarsene, come è successo a me già dalla lettura del primo Nel museo di Reims e correre a recuperare anche tutti i suoi romanzi.
(A tal proposito, l’esordio di Daniele Del Giudice, il romanzo Lo stadio di Wimbledon, è ascoltabile gratuitamente, grazie al programma «Ad alta voce» di Rai Radio 3, a questo link).Perché leggerlo? Per prepararsi alla serata on-line con Pierpaolo Vettori, Elena Stancanelli e Roberto Ferrucci dal titolo «Svanire, volare via… » che la Fondazione Sasso Corbaro dedica il 14 settembre alle 20.30 a questo grande scrittore italiano.
Una citazione dal libro: dal racconto Nel museo di Reims «È un peccato che per me, proprio per me, la luce si stia cambiando in ombra. Sarebbe un peccato per chiunque naturalmente, ma è difficile accettare di essere scelti per certi destini, specie quando mi sveglio così di colpo nel cuore della notte, e tutto diventa più drastico e senza respiro, e perfino una faccenda come la mia che non avrebbe momenti più drammatici essendo già sul limite ogni ora, tocca una soglia ancora più scabra, di notte, quando tutto è fuori misura, nel buio, che anticipa il buio nel quale finirò, e in ore come questa faccio già le prove».
Federica Merlo
Newsletter #31, Agosto 2022ChiudiLeggi la recensione
- I Netanyahu. Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre.
Joshua Cohen
Fitzcarraldo Editions, Londra, 2022 / Codice, Torino, 2022I Netanyahu. Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre (...
I Netanyahu. Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre (titolo stupendo!) di Joshua Cohen, ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa nel 2022. In realtà, il libro in italiano uscirà il 7 settembre per Codice, casa editrice che pubblica tutto Cohen e lo fa, sempre affidando la traduzione a Claudia Durastanti, una delle migliori scrittrici e traduttrici italiane (intervistata sulla rMH).
Io, che di Cohen sono fan sfegatato e che ho letteralmente brindato alla notizia del prestigioso riconoscimento, non sono riuscito a resistere e l’ho letto in inglese (basta un buon livello e la voglia di usare il vocabolario per qualche termine particolare), nell’edizione Fitzcarraldo (Regno Unito).
Avevo pochi dubbi, ma anche in questo caso, devo partire col dire che Cohen ha scritto un altro capolavoro; Pulitzer o no, questo libro è il meglio che, almeno dal fronte Stati Uniti, possiamo aspettarci da una certa narrativa letteraria.
Fatte queste dovute premesse, I Netanyahu è una commedia dissacrante, quasi Alleniana, che racconta quanto succede a un professore universitario di storia dello stato di New York di origini ebraiche, Ruben Blum (liberamente ispirato, come lo stesso Cohen ha dichiarato al grande critico Harold Bloom), quando viene incaricato nel 1959 di assistere uno studioso israeliano che, lo stesso dipartimento nel quale Blum insegna, sta valutando di assumere. Detto ciò, mi fermo per non togliere il gusto della scoperta di quanto accadrà e anzi provo ad alimentarlo ancora di più aggiungendo che questo nuovo arrivato altri non è che Ben-Zion Netanyahu, padre di quel Benjamin che alcuni decenni dopo diventerà primo contestatissimo/amatissimo ministro del complicato stato di Israele.
Vi piace Roth, vi piace Bellow, vi piace Malamud, vi piace De Lillo (anche se in questo caso, a differenza degli altri romanzi e racconti di Cohen, si sente meno un certo post-modernismo), vi piace Allen, vi piace la serie Shtisel… allora questo libro fa assolutamente per voi! Non siete particolarmente interessati al tema dei conflitti culturali e religiosi degli ebrei americani e al confronto con la loro storia, nel post-Seconda guerra mondiale? Beh, fa niente, fidatevi, questo libro fa lo stesso per voi… perché, come sempre, di fronte ai capolavori letterari, non importa tanto cosa c’è scritto, ma come è scritto, e questo I Netanyahu è un romanzo stre-pi-to-so. Punto.Perché leggerlo? Perché nessun amante della lettura dovrebbe perdersi il miglior libro dell’anno. E perché il miglior libro dell’anno è una commedia intelligente (merce rara!) e piena d’interessanti spunti di riflessione anche per i tempi che corrono.
Una citazione dal libro: «All of these changes are certainly remarkable, and yet the fact remains that the youth today is more sensitive than ever. I admit I don’t know how to understand this phenomenon and have sought to approach it «economically», asking the question whether an increase in sensitivity has brought about a decrease in discrimination, or whether a decrease in discrimination has brought about an increase in sensitivity to when, where, and how it occurs».
Nicolò S. Centemero
Newsletter #31, Agosto 2022ChiudiLeggi la recensione