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Curare ad arte

Una ricerca sul tema della cura nel mondo dell’arte,
perché curare è un’arte e l’arte può essere cura.

  • 25-8
    L’isola dei morti

    Arnold Böcklin
    1883, Olio su tavola, Alte Nationalgalerie, Berlino

    L’isola dei morti è considerato l’indiscusso capolavoro di Böcklin. Si tratta di un dipinto che l’artista realizzò in diverse versioni, tra il 1880 e il 1886. Senza dubbio, però, l’opera riesce a cogliere a pieno il mistero del trapasso come pochi altri dipinti della Storia dell’Arte. L’atmosfera di doloroso enigma, che si esprime attraverso l’esaltazione di un sublime potente e spaventoso, rimanda alle atmosfere del Romanticismo. La miscela impeccabile di antico e moderno e la ricchezza di simboli ne fanno un indiscusso capolavoro del Simbolismo europeo.

    Perché un’opera dedicata alla morte in una ...

    L’isola dei morti è considerato l’indiscusso capolavoro di Böcklin. Si tratta di un dipinto che l’artista realizzò in diverse versioni, tra il 1880 e il 1886. Senza dubbio, però, l’opera riesce a cogliere a pieno il mistero del trapasso come pochi altri dipinti della Storia dell’Arte. L’atmosfera di doloroso enigma, che si esprime attraverso l’esaltazione di un sublime potente e spaventoso, rimanda alle atmosfere del Romanticismo. La miscela impeccabile di antico e moderno e la ricchezza di simboli ne fanno un indiscusso capolavoro del Simbolismo europeo.

    Perché un’opera dedicata alla morte in una pubblicazione dedicata alla Cura? La morte non è forse la fine della cura?

    La storia dell’uomo ci dice il contrario: una delle primissime forme d’arte è senza dubbio l’arte funeraria. In un certo senso da sempre l’essere umano ha sentito il bisogno di prendersi cura del passaggio dalla vita alla morte. Come non citare gli Egizi con le piramidi e le tombe ricolme di oggetti e cibi per permettere al defunto il passaggio nel regno di Osiride. Gli Egizi, una delle prime civiltà ad approfondire studi sulla cura delle malattie e delle ferite, ma anche molto attenti a prendersi cura dei propri morti.

    Ma non è solo un prendersi cura del trapasso che rende unico l’uomo,  ma quello dell’arte attorno al tema della morte è senza dubbio un prendersi cura della memoria, del ricordo. Ogni quadro, ogni scultura, ogni scritto lasciato ai posteri trasuda di questo enorme bisogno spiccatamente umano: ricordare e farsi ricordare.

    Ricordare per continuare a prendersi cura anche di chi non c’è più, e nel suo ricordo continuare a prendersi cura di chi ancora c’è, a volte anche di noi stessi.

    Newsletter #25 - Febbraio 2022

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  • 24-4
    Schiavo detto “Atlante”

    Michelngelo Buonarroti
    1525-1530, Galleria dell’Accademia a Firenze

    L’imponente scultura marmorea di 277 cm fa parte della serie dei Prigioni "non-finiti" per la tomba di Giulio II. L'Atlante deve il suo nome alla forma del blocco non scolpito, che sembra pesare come un masso retto con sforzo sopra la testa. In realtà il blocco doveva contenere la testa stessa e un braccio, senza distinzione. Le gambe sono divaricate e piegate, un braccio sospeso, e tutta la muscolatura è in tensione come nel tentativo di sollevare un gravoso peso che incombe sulle spalle. In questa posizione è più che negli altri Prigioni, evidente il senso di energia compressa, che sembra ...

    L’imponente scultura marmorea di 277 cm fa parte della serie dei Prigioni "non-finiti" per la tomba di Giulio II. L'Atlante deve il suo nome alla forma del blocco non scolpito, che sembra pesare come un masso retto con sforzo sopra la testa. In realtà il blocco doveva contenere la testa stessa e un braccio, senza distinzione. Le gambe sono divaricate e piegate, un braccio sospeso, e tutta la muscolatura è in tensione come nel tentativo di sollevare un gravoso peso che incombe sulle spalle. In questa posizione è più che negli altri Prigioni, evidente il senso di energia compressa, che sembra esplodere dal marmo.

    Proprio lo stato non-finito è all'origine della straordinaria energia che coglie la figura in una sorta di atto primordiale nel liberarsi dal carcere della pietra grezza. Tutta la superficie è resa vibrante dalle tracce dei diversi scalpelli e raschietti usati nella scolpitura da Michelangelo.

    Questa sensazione di “prigionia” da cui cerchiamo di liberarci da quasi due anni a causa della pandemia ci opprime proprio come il personaggio che sembra divincolarsi nel blocco di marmo. Volendo fare un discorso più generale sul concetto di cura, il processo di uscita dallo stato di malattia ci impone di essere opera e artista allo stesso tempo. Opera oppressa che cerca di liberarsi e darsi una forma e artista che cerca di liberare dal marmo la figura che ha in mente. Proprio come quando siamo malati e a letto pensiamo a cosa vorremmo fare una volta guariti. Lì inizia la liberazione dalla roccia opprimente, lì inizia il nostro processo di cura. La cura come percorso verso una nuova vita, verso una ridifinizione di sé, togliere il marmo che imprigiona e che opprime e tornare a risollevarsi.

    Newsletter #24 - Gennaio 2022

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  • sdi-001
    Spedale degli innocenti

    Filippo Brunelleschi
    1419, Piazza Santissima Annunziata, Firenze

    Lo Spedale degli Innocenti è un edificio storico del centro di Firenze. Nato come primo brefotrofio d’Europa (istituto che accoglie e alleva i neonati illegittimi, abbandonati o in pericolo di abbandono), fu costruito a partire dal 1419 su progetto di Filippo Brunelleschi, facendone una delle prime architetture rinascimentali in assoluto.

    La fabbrica dello Spedale è una delle opere più significative della Firenze quattrocentesca, sia nel suo aprire l'età del Rinascimento cittadino in architettura, sia nel suo essere simbolo alto e tangibile di una civiltà che, nell'ambito della sua attenzione alle opere di pubblica utilità, cercò di rispondere in modo moderno ...

    Lo Spedale degli Innocenti è un edificio storico del centro di Firenze. Nato come primo brefotrofio d’Europa (istituto che accoglie e alleva i neonati illegittimi, abbandonati o in pericolo di abbandono), fu costruito a partire dal 1419 su progetto di Filippo Brunelleschi, facendone una delle prime architetture rinascimentali in assoluto.

    La fabbrica dello Spedale è una delle opere più significative della Firenze quattrocentesca, sia nel suo aprire l'età del Rinascimento cittadino in architettura, sia nel suo essere simbolo alto e tangibile di una civiltà che, nell'ambito della sua attenzione alle opere di pubblica utilità, cercò di rispondere in modo moderno ed efficace al problema del ricovero, della cura e dell'istruzione dei fanciulli abbandonati. Si può dire che il passaggio dal Medioevo al Rinascimento si apre con il ripensare il concetto di cura e l’arte, in questo caso architettonica, ne sia il mezzo privilegiato. Brunelleschi studia e architetta spazi che, oltre che presentare un’armonia architettonica ragionata, sono allo stesso tempo utili allo scopo per cui erano destinati. Per questa ragione è enorme la ricchezza degli studi che sono stati dedicati al complesso e alla molteplicità degli ambienti e spazi interni, sebbene a livello figurativo rimane un’icona del Rinascimento la facciata abbellita dalle maioliche di Andrea della Robbia.

    I tempi sono cambiati dal 1419 come pure il concetto di cura, ma ancora oggi lo Spedale degli Innocenti ospita asili nido, una scuola materna, tre case famiglia destinate all'accoglienza di bambini in affido familiare e madri in difficoltà, segno tangibile che l’arte è Cura e curare è un Arte.

    Newsletter #23 - Dicembre 2021

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  • 22-8
    Bacchino malato

    Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio
    1593-94, Galleria Borghese, Roma

    In quest'opera l’autore si immedesima nel dio Dioniso, personaggio che incarna l'indole passionale in cui Caravaggio si riconosceva. Tuttavia il pittore si trovava in una fase di debolezza e malattia, infatti era stato vittima del calcio di un cavallo che lo aveva costretto a una convalescenza ospedaliera nell'ospeale della Consolazione. Il fatto lo aveva portato a riflettere sulla condizione umana, sempre in bilico tra salute e malattia, vigore e debolezza, spirito entusiastico e malinconia. In questo autoritratto Caravaggio ritrae Bacco con le labbra livide, il volto magro e pallido, ma con una corona di edera sul capo: questa pianta, ...

    In quest'opera l’autore si immedesima nel dio Dioniso, personaggio che incarna l'indole passionale in cui Caravaggio si riconosceva. Tuttavia il pittore si trovava in una fase di debolezza e malattia, infatti era stato vittima del calcio di un cavallo che lo aveva costretto a una convalescenza ospedaliera nell'ospeale della Consolazione. Il fatto lo aveva portato a riflettere sulla condizione umana, sempre in bilico tra salute e malattia, vigore e debolezza, spirito entusiastico e malinconia. In questo autoritratto Caravaggio ritrae Bacco con le labbra livide, il volto magro e pallido, ma con una corona di edera sul capo: questa pianta, da sempre simbolo di Dioniso, è segno di protezione e augurio di buon auspicio.

    Il dipinto non solo è ben augurante, ma esprime la consapevolezza della fragilità umana.

    Il periodo della degenza, quel periodo dedicato alla cura, diventa spesso un periodo di riflessione, dove a volte si rivedono le proprie priorità, si rivalutano i propri valori o addirittura crollano certezze fino ad allora solide.

    Caravaggio nel suo autoritratto allegorico ritrae proprio questo. C’è tutta la fragilità del momento, la sua vulnerabilità fisica e psichica, ma anche la sua speranza e desiderio di vita e per dircelo usa il linguaggio che meglio conosce: quello della pittura.

    L’arte di nuovo come mezzo di cura: mettere la propria condizione di malattia su tela, quasi ad esorcizzarla, ma anche per prenderne coscienza; primo passo per iniziare il proprio percorso di cura.

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  • 21-1
    Tigre con serpente

    Antonio Ligabue
    non datato, collezione privata

    La Storia dell’arte si è costellata nei secoli di personaggi che presentavano disturbi psichici, ma cosa accumuna cosi tanto arte e follia? È forse una sensibilità diversa, alterata a volte, che permette di evolversi artisticamente creando nuove forme di linguaggio, o è di per sé l’avvicinarsi all’arte a portare poi ad un’alterazione dello stato psico-emotivo della persona? Per alcuni l’arte fu un’ancora di salvezza da una realtà che in altro modo avrebbe visto esclusi certi personaggi eccentrici, anomali, geniali. Dall’altra c’è chi, talmente assorbito nel proprio mondo artistico, finì col perdere i contatti con la realtà.

    ...

    La Storia dell’arte si è costellata nei secoli di personaggi che presentavano disturbi psichici, ma cosa accumuna cosi tanto arte e follia? È forse una sensibilità diversa, alterata a volte, che permette di evolversi artisticamente creando nuove forme di linguaggio, o è di per sé l’avvicinarsi all’arte a portare poi ad un’alterazione dello stato psico-emotivo della persona? Per alcuni l’arte fu un’ancora di salvezza da una realtà che in altro modo avrebbe visto esclusi certi personaggi eccentrici, anomali, geniali. Dall’altra c’è chi, talmente assorbito nel proprio mondo artistico, finì col perdere i contatti con la realtà.

    Nel caso di Antonio Ligabue il suo mondo pittorico lo aiutò ad esternare tutte le emozioni che nascevano nella sua testa, le paure che ne affliggevano l’anima. Questo non lo salvò dall’essere ricoverato più volte in manicomio. Antonio dipingeva molto, con colori vivaci, con tematiche sempre molto legate alla fauna selvatica. Uno stile naif simile a quello di Rousseau, il doganiere francese. Tigri, leopardi, sempre ruggenti, sempre ferocemente accaniti sulla preda. Si narra che

    un giovane medico, in uno dei vari ricoveri, dedusse che quegli animali imponenti, feroci , violenti, che occupavano l’intera tela, non fossero altro che i suoi disturbi, la sua vita travagliata che assalivano l’esistenza dell’artista. Antonio parlava di sé usando il linguaggio pittorico della giungla contenstualizzata nel paesaggio famigliare della pianura emiliana bagnata dal Po. Il medico ne parlò con Antonio, provò a spronarlo a invertire la rotta, sovvertire il punto di vista: doveva diventare lui la belva, il dominatore delle sue tele e della sua vita, non la sua malattia. Antonio accolse le parole del dottore, le ascoltò e gli frullarono in testa per molto tempo.

    Un giorno tornò sulla tela a dipingere, l’ennesimo felino. A tela terminata si vide qualcosa di diverso. Un’enorme tigre, in posa trionfante, maestosa, con le fauci aperte. Nessuna vittima sotto i suoi artigli, questa volta Antonio era diventato la tigre. Un successo terapeutico senza precedenti se non fosse che quella tigre, in contrasto netto con la sua posa e la sua massa imponente, si ritrovi avvinghiata dalle spire di un gigantesto serpente che la stava soffocando e da cui non riusciva a liberarsi. Antonio non è cambiato: la prospettiva si, ma lui no. Il malessere se lo porterà dentro per sempre, sarà sempre parte di lui, che lui sia un’esile antilope o una possente tigre. Antonio non guarì mai, aveva solo l’arte come cura. La follia lo faceva entrare in manicomio, l’arte lo faceva evadere.

    Ottobre 2021

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  • 20_5
    Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda

    Joseph Beuys
    1966, Centre Pompidou, Parigi

    Joseph Beuys amava il feltro, fin da quando, pilota nella Seconda guerra mondiale, abbattuto dal nemico e precipitato col suo aereo in Crimea, sperimenta il freddo e rischia di morire assiderato: lo salva un gruppo di nomadi tartari, curandolo proprio con una coperta di feltro.

    La poetica e pratica artistica di Beuys hanno precorso temi e riflessioni oggi più che mai attuali: il rapporto tra essere umano e Natura, ecologia, pace, arte intesa come impegno sociale e ricerca spirituale. In “Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda”un pianoforte, a simbolo della Cultura in crisi, viene avvolto in uno strato di ...

    Joseph Beuys amava il feltro, fin da quando, pilota nella Seconda guerra mondiale, abbattuto dal nemico e precipitato col suo aereo in Crimea, sperimenta il freddo e rischia di morire assiderato: lo salva un gruppo di nomadi tartari, curandolo proprio con una coperta di feltro.

    La poetica e pratica artistica di Beuys hanno precorso temi e riflessioni oggi più che mai attuali: il rapporto tra essere umano e Natura, ecologia, pace, arte intesa come impegno sociale e ricerca spirituale. In “Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda”un pianoforte, a simbolo della Cultura in crisi, viene avvolto in uno strato di feltro per proteggerlo e ricondurlo alla vita.

    Un riferimento alla vita personale dell’artista per ricordare una cura ricevuta e riproporla a favore di un elemento cosi vulnerabile come la Cultura. La croce rossa sulla coperta di feltro enfatizza il concetto di cura da prestare al concetto stesso di Cultura.

    Quest’opera di Beuys, cosi come molte altre sue creazioni, sanno ritrovare attualità anche sessant’anni dopo. L’intero mondo della Cultura è stato tra i più toccati durante questa pandemia e forse qualche coperta in più non avrebbe guastato. Ma la Cura è un atto temporaneo, fatto di più fasi: anche quello di togliere la coperta e tornare a far risuonare le corde del nostro pianoforte, perché è la Cultura stessa una Cura per noi stessi.

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  • 19-15
    Autoritratto con amici. 1824 / 27

    Francesco Hayez
    olio su tela, Museo Poldi Pezzoli, Milano

    Il quadro è un non finito, un abbozzo di dipinto molto probabilmente iniziato da Hayez sotto un importante moto emotivo. L’opera infatti raffigura la trasposizione visiva del brindisi recitato dal Tommaso Grossi nel 1824 in un banchetto di amici organizzato da Giuseppe Molteni per festeggiare la guarigione di Hayez da una lunga malattia. Il personaggio al centro, dunque, sarebbe lo stesso artista attorniato dai suoi amici più cari (a sinistra, Giovanni Migliara in basso e, in alto, Pelagio Palagi; a destra, con la tuba, Giuseppe Molteni e infine Tommaso Grossi).

    Un ritratto di guarigione, che celebra la vita, il ritorno a ...

    Il quadro è un non finito, un abbozzo di dipinto molto probabilmente iniziato da Hayez sotto un importante moto emotivo. L’opera infatti raffigura la trasposizione visiva del brindisi recitato dal Tommaso Grossi nel 1824 in un banchetto di amici organizzato da Giuseppe Molteni per festeggiare la guarigione di Hayez da una lunga malattia. Il personaggio al centro, dunque, sarebbe lo stesso artista attorniato dai suoi amici più cari (a sinistra, Giovanni Migliara in basso e, in alto, Pelagio Palagi; a destra, con la tuba, Giuseppe Molteni e infine Tommaso Grossi).

    Un ritratto di guarigione, che celebra la vita, il ritorno a una normalità che la malattia aveva interrotto e che ritrova senso solo se condivisa con gli amici più cari. Quegli amici della stagione romantica, quelli che negli anni '20 del XIX secolo percorrevano la sua stessa strada e condividevano con lui discussioni, scelte intellettuali e civili.

    Un ritratto che nella sua non completezza trova il suo fascino e la sua forza espressiva concentrando l’attenzione di chi guarda sui visi dei protagonisti.

    Questo quadro, ma soprattutto la sua storia, ci racconta questo momento storico, dove molti di noi si sono sentiti “guariti” solo una volta potuto tornare a frequentare le persone vicine e care. L’amicizia, il contatto, tutto il bisogno sociale dell’essere umano celebrato su tela.

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  • 18-4
    Fontana, 1917

    Marcel Duchamp
    ready made

    Marcel Duchamp con i suoi ready made entra di prepotenza tra i protagonisti della Storia dell’Arte. Tra le sue opere più famose sicuramente possiamo citare la “Fontana”. Un semplice orinatoio capovolto, una firma fasulla e quel banale e volgare oggetto di ceramica diventa un’opera d’arte. L’oggetto non cambia forma, non cambia colore. Duchamp cambia quell’orinatoio nel suo significato, lo eleva allo status di opera d’arte, lo estirpa dal suo anonimato di oggetto. Un gesto semplice, un gesto storico, un gesto che cambia l’esistenza stessa dell’oggetto. L’opera non fu mai esposta e ...

    Marcel Duchamp con i suoi ready made entra di prepotenza tra i protagonisti della Storia dell’Arte. Tra le sue opere più famose sicuramente possiamo citare la “Fontana”. Un semplice orinatoio capovolto, una firma fasulla e quel banale e volgare oggetto di ceramica diventa un’opera d’arte. L’oggetto non cambia forma, non cambia colore. Duchamp cambia quell’orinatoio nel suo significato, lo eleva allo status di opera d’arte, lo estirpa dal suo anonimato di oggetto. Un gesto semplice, un gesto storico, un gesto che cambia l’esistenza stessa dell’oggetto. L’opera non fu mai esposta e andò perduta, ma la sua icona è rimasta scalfita nella Storia dell’Arte e nell’immaginario collettivo.

    Nella nostra vita a volte incontriamo persone che sanno vedere dentro di noi l’opera d’arte, che sanno, attraverso un cambio di prospettiva, elevare la nostra esistenza a qualcosa di meglio e ci fanno vivere meglio con noi stessi. Un ready made della persona, una cura che non ci cambia nella forma o nel colore, ma cambia il nostro modo di vederci, di vivere, e questo grazie a qualcuno. Quel qualcuno che si è curato di noi soltanto con il suo essere con noi. Forse per qualcuno il suo Duchamp non è ancora arrivato, per qualcun altro forse è già passato. Forse lo siamo stati a nostra volta o forse no.

    Non bisognerebbe farseli scappare i Duchamp dalla propria vita, quelli che ti entrano e ti cambiano prospettiva, ma se succede, come per l’orinatoio, rimane quel cambio di prospettiva, quando ti sentivi un cesso e invece qualcuno ti ha insegnato ad essere un’opera d’arte. Grazie.

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  • 17-9
    La creazione di Adamo

    Michelangelo Buonarroti, 1508-1512
    affresco, Cappella Sistina, Roma

    Frank Meshberger è stato un noto neurologo americano. Un giorno, sfogliando un libro dedicato a Michelangelo mentre si rilassava dopo ore di intenso studio nel suo laboratorio, fu subito colpito dalla forma dell’immagine che circonda Dio e gli angeli. Era la stessa cosa su cui aveva lavorato tutto il giorno: il profilo inconfondibile della sezione di un cervello umano. Inoltre, il vestito vorticoso verde corrisponde all’arteria vertebrale e la gamba dell’angelo che si estende sotto la base del contorno rosa dividerebbe l’ipofisi anteriore dalla posteriore.

    Un cervello in uno degli affreschi più iconici dell’intera Storia dell’...

    Frank Meshberger è stato un noto neurologo americano. Un giorno, sfogliando un libro dedicato a Michelangelo mentre si rilassava dopo ore di intenso studio nel suo laboratorio, fu subito colpito dalla forma dell’immagine che circonda Dio e gli angeli. Era la stessa cosa su cui aveva lavorato tutto il giorno: il profilo inconfondibile della sezione di un cervello umano. Inoltre, il vestito vorticoso verde corrisponde all’arteria vertebrale e la gamba dell’angelo che si estende sotto la base del contorno rosa dividerebbe l’ipofisi anteriore dalla posteriore.

    Un cervello in uno degli affreschi più iconici dell’intera Storia dell’Arte. E non in un posto qualunque,ma in uno dei centri nevralgici e simbolici della religione cristiana, laddove i cardinali, chiusi in conclave, eleggono da secoli il successore di Pietro.

    Come Michelangelo sia riuscito ad esaminare e studiare in maniera accurata la sezione di un cervello, all’epoca in cui la sezione dei cadaveri era ritenuta pratica eretica, non ci è dato saperlo. Ma quello che a noi interessa è la scelta di Michelangelo di dove inserire questo particolare: La creazione di Adamo. Quasi a sfidare il potere della Chiesa e le credenze millenarie di un Dio creatore dell’uomo che esce lui stesso da un cervello umano. Chi ha creato chi? E perché?

    Quante volte in un momento difficile, nella propria sofferenza o quella di un parente o di un amico, quando le cure mediche e scientifiche sembrano inutili, molti si rivolgono ai poteri divini e ultraterreni chiedendo, implorando, pregando. Una cura spirituale, la ricerca di qualcosa che vada al di là del nostro essere umani, per cercare sollievo oltre la propria condizione di fragilità. Come un Adamo che allunga la mano per toccare quel dito e cercare un senso o cercare di crearselo. Nella nostra chiave di lettura declinata al mondo della Cura la domanda che Michelangelo lascia sospesa sulla volta della Sistina può essere questa: “Dio ha creato l’uomo per prendersene cura? O l’uomo ha creato dio per prendersi cura di sè?”

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  • 16-4
    Lo stagno delle ninfee. Armonia verde.

    Il soggetto di quest’opera è il giardino in stile giapponese che il pittore costruì per se stesso presso Giverny. In questo giardino Monet coltivava personalmente diverse piante esotiche che decoravano un ponticello di legno, il quale nella rappresentazione divide lo spazio pittorico orizzontalmente, in due parti. Le tonalità predominanti sono quelle del verde, che si fondono tra loro per creare un'armonia cromatica piacevole e rilassante.

    Un giardino dove dipingere e dove possiamo sicuramente immaginare Claude Monet passeggiare, soffermarsi sui colori e le forme, chinarsi a curare con mano i fiori e le piante di quel piccolo ...

    Il soggetto di quest’opera è il giardino in stile giapponese che il pittore costruì per se stesso presso Giverny. In questo giardino Monet coltivava personalmente diverse piante esotiche che decoravano un ponticello di legno, il quale nella rappresentazione divide lo spazio pittorico orizzontalmente, in due parti. Le tonalità predominanti sono quelle del verde, che si fondono tra loro per creare un'armonia cromatica piacevole e rilassante.

    Un giardino dove dipingere e dove possiamo sicuramente immaginare Claude Monet passeggiare, soffermarsi sui colori e le forme, chinarsi a curare con mano i fiori e le piante di quel piccolo angolo di mondo in cui l’artista francese aveva creato il suo universo pittorico.

    Una sorta di oasi creativa, dove Monet poteva rifugiarsi, dove trovava benessere.

    Lo possiamo vedere dalle pennellate, che sebbene rapide in perfetto stile impressionista, si sovrappongono con armonia e cura del dettaglio, trasmettendo allo spettatore un senso di calma, la stessa che possiamo immaginare provasse Monet una volta varcata la soglia di quel giardino.

    Un luogo speciale per Monet, dove prendersi cura di tutte quelle piante voleva dire prendersi cura delle sue opere, della sua arte e in qualche modo di se stesso.

    Prendersi cura di sé attraverso i luoghi che si attraversano, che si vivono: che sia una stanza di casa, il laboratorio in garage, la finestra dell’ufficio, un giardino, una panchina di un parco di fronte ad un panorama a noi caro. Ognuno di noi dovrebbe avere il proprio giardino, la propria personale Giverny. Un luogo dove ognuno abbia un ponte per ricollegarsi a se stesso, un luogo di cura “intimo e personale”.

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