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Curare ad arte

Una ricerca sul tema della cura nel mondo dell’arte,
perché curare è un’arte e l’arte può essere cura.

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    Yellow

    Nathan Sawaya
    2007, Avant Gallery – New York

    L’opera di Sawaya, giocosa e divertente come un gioco da bambini, è frutto di un lavoro ossessivamente preciso e minuziosamente realizzato. Nathan Sawaya si è guadagnato una posizione di spicco nel mondo dell'arte contemporanea creando una nuova dimensione, fondendo Pop Art e Surrealismo in un'atmosfera sbalorditiva e rivoluzionaria nella capacità di dare forma ai sentimenti con un gioco che abbiamo tutti a portata di mano; i mattoncini Lego.

    La sua arte consiste infatti nel saper giocare con la materia, con il colore, con il movimento, la luce e la prospettiva per creare emozioni che ci colgono e ci sorprendono, restituendoci come esseri umani, una caratteristica importantissima e qualificante come la creatività.

    In quest’opera Sawaya rappresenta un mezzo busto che, quasi con fierezza, apre il proprio torace da cui escono innumerevoli mattoncini lego dello stesso colore della scultura: il giallo.  Va ricordato come nel mondo Lego il giallo sia il colore di cui sono colorate le facce e le mani dei personaggi, quindi questa scelta pop facilita ancor di più l’immedesimazione dell’osservatore nella rappresentazione.

    In tutto questo, malgrado il gesto lacerante, non c’è dolore, c’è quasi orgoglio, ostentazione di quello che si custodisce. In un processo di cura molte volte si vive il corpo come il contenitore del proprio male, ma sta altresì dentro noi stessi la forza primaria che ci permette di affrontare il medesimo processo di cura, forze e risorse di cui forse non siamo neppure coscienti. Occorre saper guardarci dentro per trovare dentro di noi la forza di andare avanti.

    Newsletter #30 - Luglio 2022

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    L’opera di Sawaya, giocosa e divertente come un gioco da bambini, è frutto di un lavoro ossessivamente preciso e minuziosamente realizzato. Nathan Sawaya si è guadagnato una posizione di spicco nel mondo dell'arte contemporanea creando una nuova dimensione, fondendo Pop Art e Surrealismo in un'atmosfera sbalorditiva e rivoluzionaria nella capacità di dare forma ai sentimenti con un gioco che abbiamo tutti a portata di mano; i mattoncini Lego.

    La sua arte consiste infatti nel saper giocare con la materia, con il colore, con il movimento, la luce e la prospettiva per creare emozioni che ci colgono e ci sorprendono, restituendoci come esseri umani, una caratteristica importantissima e qualificante come la creatività.

    In quest’opera Sawaya rappresenta un mezzo busto che, quasi con fierezza, apre il proprio torace da cui escono innumerevoli mattoncini lego dello stesso colore della scultura: il giallo.  Va ricordato come nel mondo Lego il giallo sia il colore di cui sono colorate le facce e le mani dei personaggi, quindi questa scelta pop facilita ancor di più l’immedesimazione dell’osservatore nella rappresentazione.

    In tutto questo, malgrado il gesto lacerante, non c’è dolore, c’è quasi orgoglio, ostentazione di quello che si custodisce. In un processo di cura molte volte si vive il corpo come il contenitore del proprio male, ma sta altresì dentro noi stessi la forza primaria che ci permette di affrontare il medesimo processo di cura, forze e risorse di cui forse non siamo neppure coscienti. Occorre saper guardarci dentro per trovare dentro di noi la forza di andare avanti.

    Newsletter #30 - Luglio 2022

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  • Immagine1
    Autoritratto del malato

    Albrecht Dürer
    1512-13, Kunsthalle, Berna

    Comunicare al medico i propri sintomi, anche a distanza. Oggi si può: basta inviare una foto per mail , scrivere con whatsapp, messenger oppure organizzare una videochiamata. All’inizio del sedicesimo secolo invece tutto questo non era possibile, ma come è capitato spesso nel corso della storia, l’ingegno dell’uomo ha saputo precorrere i tempi.  Albrecht Dürer lo ha fatto nella maniera a lui più confacente, utilizzando le sue capacità illustrative. Con un autoritratto l’artista indica la parte anatomica dolente, interrogando il medico per capire l’origine della sintomatologia e la cura possibile. Un rapporto epistolare medico-paziente del tutto originale per l’epoca, ma che coglie perfettamente lo spirito di fiducia tra i due interlocutori. Immaginiamo Dürer intento a dipingere, magari lontano da casa, accolto in una delle corti rinascimentali del Nord Europa dove era ritenuto uno dei massimi pittori dell’epoca. Sicuramente l’artista era attorniato da medici e dottori di corte, ma decide di autoritrarsi e far giugere una missiva ad un medico di sua fiducia, quello con cui ha instaurato quel rapporto medico-paziente che sta alla base del processo di Cura.

    Anche il disegno indica una certa famigliarità; il paziente si ritrae nudo proprio come durante una visita medica, indica il male con il dito, ma soprattutto pone lo sguardo verso l’interlocutore, cercando cosi di instaurare ancor di più un contatto che, seppur a distanza, il disegno ci fa percepire.

    Senza dubbio è un documento valido dal punto di vista storico più che artistico, ma è interessante pensare come i grandi geni del passato riescano ad essere tali ancora oggi anche unicamente con il loro tratto e nella quotidianità del messaggio.

    Newsletter #29 - Giugno 2022

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    Comunicare al medico i propri sintomi, anche a distanza. Oggi si può: basta inviare una foto per mail , scrivere con whatsapp, messenger oppure organizzare una videochiamata. All’inizio del sedicesimo secolo invece tutto questo non era possibile, ma come è capitato spesso nel corso della storia, l’ingegno dell’uomo ha saputo precorrere i tempi.  Albrecht Dürer lo ha fatto nella maniera a lui più confacente, utilizzando le sue capacità illustrative. Con un autoritratto l’artista indica la parte anatomica dolente, interrogando il medico per capire l’origine della sintomatologia e la cura possibile. Un rapporto epistolare medico-paziente del tutto originale per l’epoca, ma che coglie perfettamente lo spirito di fiducia tra i due interlocutori. Immaginiamo Dürer intento a dipingere, magari lontano da casa, accolto in una delle corti rinascimentali del Nord Europa dove era ritenuto uno dei massimi pittori dell’epoca. Sicuramente l’artista era attorniato da medici e dottori di corte, ma decide di autoritrarsi e far giugere una missiva ad un medico di sua fiducia, quello con cui ha instaurato quel rapporto medico-paziente che sta alla base del processo di Cura.

    Anche il disegno indica una certa famigliarità; il paziente si ritrae nudo proprio come durante una visita medica, indica il male con il dito, ma soprattutto pone lo sguardo verso l’interlocutore, cercando cosi di instaurare ancor di più un contatto che, seppur a distanza, il disegno ci fa percepire.

    Senza dubbio è un documento valido dal punto di vista storico più che artistico, ma è interessante pensare come i grandi geni del passato riescano ad essere tali ancora oggi anche unicamente con il loro tratto e nella quotidianità del messaggio.

    Newsletter #29 - Giugno 2022

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  • 29-10
    Ragazza alla finestra

    Salvador Dalí
    olio su tela, 1925

    Il soggetto in quest’opera di Dalì è la sorella dell’artista, a quell’epoca diciasettenne, affacciata a una delle finestre della casa di famiglia. I colori predominanti sono i blu, con tendenza a schiarire. Il tipo di vestiario della ragazza ricorda quasi le camicie utilizzate negli ospedali, ma quello che più impressiona in quest’opera di Dali, come in molte altre da lui concepite, è  proprio l’uso dei colori: infatti le stesse tonalità usate per definire l’interno del primo piano vengono riutilizzate per definire lo sfondo al di fuori dalla finestra. Una tecnica magistrale, quasi funambolica, che permetterà a Dali di raggiungere le vette più alte del surrealismo e che in questo caso unisce interno con esterno.

    Il periodo della cura è il periodo anche dell’attesa, di affacciarsi alla finestra a guardare i colori, aspettando tempi migliori. Il mondo che entra dalla finestra, ma che già hai addosso e dentro di te. L’essere umano al  tempo stesso spettatore e parte integrante del mondo.

    Ecco il messaggio che fa passare Dali in questo linguaggio cromatico: Il mondo che guardiamo è quello che ci abita, è quello che rincorriamo ma di cui allo stesso tempo già siamo parte.

    E quindi l’attesa non è più un tempo sospeso, ma un tempo integrante della vita, del nostro essere al mondo che ci abita e che allo stesso tempo abitiamo. La cura è la finestra aperta sul mondo a cui vogliamo tornare, ma da cui siamo sempre abitati.

    Newsletter #28 - Maggio 2022

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    Il soggetto in quest’opera di Dalì è la sorella dell’artista, a quell’epoca diciasettenne, affacciata a una delle finestre della casa di famiglia. I colori predominanti sono i blu, con tendenza a schiarire. Il tipo di vestiario della ragazza ricorda quasi le camicie utilizzate negli ospedali, ma quello che più impressiona in quest’opera di Dali, come in molte altre da lui concepite, è  proprio l’uso dei colori: infatti le stesse tonalità usate per definire l’interno del primo piano vengono riutilizzate per definire lo sfondo al di fuori dalla finestra. Una tecnica magistrale, quasi funambolica, che permetterà a Dali di raggiungere le vette più alte del surrealismo e che in questo caso unisce interno con esterno.

    Il periodo della cura è il periodo anche dell’attesa, di affacciarsi alla finestra a guardare i colori, aspettando tempi migliori. Il mondo che entra dalla finestra, ma che già hai addosso e dentro di te. L’essere umano al  tempo stesso spettatore e parte integrante del mondo.

    Ecco il messaggio che fa passare Dali in questo linguaggio cromatico: Il mondo che guardiamo è quello che ci abita, è quello che rincorriamo ma di cui allo stesso tempo già siamo parte.

    E quindi l’attesa non è più un tempo sospeso, ma un tempo integrante della vita, del nostro essere al mondo che ci abita e che allo stesso tempo abitiamo. La cura è la finestra aperta sul mondo a cui vogliamo tornare, ma da cui siamo sempre abitati.

    Newsletter #28 - Maggio 2022

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  • 27-4
    Cappella aconfessionale

    Mark Rothko
    1964-1971 – Houston, Texas

    La Cappella Rothko è una cappella aconfessionale situata a Houston, fondata da John e Dominique de Menil. Lo spazio interno assolve non solo il compito di cappella, ma costituisce altresì un'importante opera d'arte moderna. Alle sue pareti vi sono 14 dipinti neri, con sfumature, realizzati dall'artista Mark Rothko. La forma ottagonale dell'edificio e il suo design sono stati ampiamente influenzati dall'artista.

    La Cappella è diventata un luogo sacro e al contempo laico, aperto a tutte le religioni, ma che non appartiene a nessuna. È diventato un centro per scambi culturali, religiosi e filosofici internazionali, per seminari e rappresentazioni, e insieme luogo di preghiera privata di individui di ogni fede. Proprio come la Cura, la cappella Rothko non si nega a nessuno.

    Sappiamo bene che la cura del corpo non è separata dalla cura della psiche, “Men sana in corpore sano” dicevano gli antichi, e credo questo valga pure a parti invertite.  La guarigione può davvero passare anche attraverso l’espressione della spiritualità, che è una forza innata nell’uomo. L’arte è un canale per la liberazione di tale forza, faticosa o impensabile nel suo affiorare per taluni, più naturale o consapevole per altri.

    Non è un caso che sia stato Mark Rothko a curare l’allestimento di uno spazio del genere. Rothko usa un linguaggio artistico molto basico, fondato sulle sensazioni e le emozioni suscitate dai colori: un linguaggio pressoché universale.

    Cito lo stesso Mark Rothko: “Il fatto che alcuni uomini dinanzi ai miei quadri crollino e si mettano a piangere dimostra che io sono in grado di dare espressione alle fondamentali sensazioni umane.”

    Newsletter #27 - Aprile 2022

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    La Cappella Rothko è una cappella aconfessionale situata a Houston, fondata da John e Dominique de Menil. Lo spazio interno assolve non solo il compito di cappella, ma costituisce altresì un'importante opera d'arte moderna. Alle sue pareti vi sono 14 dipinti neri, con sfumature, realizzati dall'artista Mark Rothko. La forma ottagonale dell'edificio e il suo design sono stati ampiamente influenzati dall'artista.

    La Cappella è diventata un luogo sacro e al contempo laico, aperto a tutte le religioni, ma che non appartiene a nessuna. È diventato un centro per scambi culturali, religiosi e filosofici internazionali, per seminari e rappresentazioni, e insieme luogo di preghiera privata di individui di ogni fede. Proprio come la Cura, la cappella Rothko non si nega a nessuno.

    Sappiamo bene che la cura del corpo non è separata dalla cura della psiche, “Men sana in corpore sano” dicevano gli antichi, e credo questo valga pure a parti invertite.  La guarigione può davvero passare anche attraverso l’espressione della spiritualità, che è una forza innata nell’uomo. L’arte è un canale per la liberazione di tale forza, faticosa o impensabile nel suo affiorare per taluni, più naturale o consapevole per altri.

    Non è un caso che sia stato Mark Rothko a curare l’allestimento di uno spazio del genere. Rothko usa un linguaggio artistico molto basico, fondato sulle sensazioni e le emozioni suscitate dai colori: un linguaggio pressoché universale.

    Cito lo stesso Mark Rothko: “Il fatto che alcuni uomini dinanzi ai miei quadri crollino e si mettano a piangere dimostra che io sono in grado di dare espressione alle fondamentali sensazioni umane.”

    Newsletter #27 - Aprile 2022

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  • 26-10
    Guernica

    Pablo Picasso
    1937, olio su tela, Museo Nacional, Madrid

    «L'avete fatto voi questo orrore, Maestro?», chiese l’ambasciatore tedesco di Francia Otto Abetz recatosi nell’appartamento parigino di Pablo Picasso. «No, è opera vostra». Rispose Picasso.

    Così narra la leggenda che sta attorno all’opera Guernica, uno dei capolavori di Picasso, divenuto il manifesto mondiale contro le atrocità della guerra. Una condanna forte, decisa, verso l’uomo e la sua capacità di infliggere dolore verso i suoi simili, verso se stesso. Picasso crea il quadro di Guernica trasportando tutta l’atrocità della guerra su tela, senza aggiungere nulla di quello che già è nella realtà. Nessun accenno di eroismo od orgoglio nazionale, nessun riconoscimento verso la guerra ...

    «L'avete fatto voi questo orrore, Maestro?», chiese l’ambasciatore tedesco di Francia Otto Abetz recatosi nell’appartamento parigino di Pablo Picasso. «No, è opera vostra». Rispose Picasso.

    Così narra la leggenda che sta attorno all’opera Guernica, uno dei capolavori di Picasso, divenuto il manifesto mondiale contro le atrocità della guerra. Una condanna forte, decisa, verso l’uomo e la sua capacità di infliggere dolore verso i suoi simili, verso se stesso. Picasso crea il quadro di Guernica trasportando tutta l’atrocità della guerra su tela, senza aggiungere nulla di quello che già è nella realtà. Nessun accenno di eroismo od orgoglio nazionale, nessun riconoscimento verso la guerra se non riconoscerne le atrocità e il dolore. Solo una scala di grigi laddove ogni colore viene avvilito.

    Abbiamo già detto in questa rubrica come il primo gesto di cura sia il riconoscimento della malattia. Guernica è questo: il riconoscimento della guerra come malattia nella storia dell’uomo, con tutti i sintomi che da essa derivano. L’uomo, che tanto ha fatto nell’ambito della Cura, ancora non è riuscito a debellare la guerra.

    Guernica resta cosi, un assordante diagnosi inascoltata.

    Newsletter #26 - Marzo 2022

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  • 25-8
    L’isola dei morti

    Arnold Böcklin
    1883, Olio su tavola, Alte Nationalgalerie, Berlino

    L’isola dei morti è considerato l’indiscusso capolavoro di Böcklin. Si tratta di un dipinto che l’artista realizzò in diverse versioni, tra il 1880 e il 1886. Senza dubbio, però, l’opera riesce a cogliere a pieno il mistero del trapasso come pochi altri dipinti della Storia dell’Arte. L’atmosfera di doloroso enigma, che si esprime attraverso l’esaltazione di un sublime potente e spaventoso, rimanda alle atmosfere del Romanticismo. La miscela impeccabile di antico e moderno e la ricchezza di simboli ne fanno un indiscusso capolavoro del Simbolismo europeo.

    Perché un’opera dedicata alla morte in una pubblicazione dedicata alla Cura? La morte non è forse la fine della cura?

    La storia dell’uomo ci dice il contrario: una delle primissime forme d’arte è senza dubbio l’arte funeraria. In un certo senso da sempre l’essere umano ha sentito il bisogno di prendersi cura del passaggio dalla vita alla morte. Come non citare gli Egizi con le piramidi e le tombe ricolme di oggetti e cibi per permettere al defunto il passaggio nel regno di Osiride. Gli Egizi, una delle prime civiltà ad approfondire studi sulla cura delle malattie e delle ferite, ma anche molto attenti a prendersi cura dei propri morti.

    Ma non è solo un prendersi cura del trapasso che rende unico l’uomo,  ma quello dell’arte attorno al tema della morte è senza dubbio un prendersi cura della memoria, del ricordo. Ogni quadro, ogni scultura, ogni scritto lasciato ai posteri trasuda di questo enorme bisogno spiccatamente umano: ricordare e farsi ricordare.

    Ricordare per continuare a prendersi cura anche di chi non c’è più, e nel suo ricordo continuare a prendersi cura di chi ancora c’è, a volte anche di noi stessi.

    Newsletter #25 - Febbraio 2022 ...

    L’isola dei morti è considerato l’indiscusso capolavoro di Böcklin. Si tratta di un dipinto che l’artista realizzò in diverse versioni, tra il 1880 e il 1886. Senza dubbio, però, l’opera riesce a cogliere a pieno il mistero del trapasso come pochi altri dipinti della Storia dell’Arte. L’atmosfera di doloroso enigma, che si esprime attraverso l’esaltazione di un sublime potente e spaventoso, rimanda alle atmosfere del Romanticismo. La miscela impeccabile di antico e moderno e la ricchezza di simboli ne fanno un indiscusso capolavoro del Simbolismo europeo.

    Perché un’opera dedicata alla morte in una pubblicazione dedicata alla Cura? La morte non è forse la fine della cura?

    La storia dell’uomo ci dice il contrario: una delle primissime forme d’arte è senza dubbio l’arte funeraria. In un certo senso da sempre l’essere umano ha sentito il bisogno di prendersi cura del passaggio dalla vita alla morte. Come non citare gli Egizi con le piramidi e le tombe ricolme di oggetti e cibi per permettere al defunto il passaggio nel regno di Osiride. Gli Egizi, una delle prime civiltà ad approfondire studi sulla cura delle malattie e delle ferite, ma anche molto attenti a prendersi cura dei propri morti.

    Ma non è solo un prendersi cura del trapasso che rende unico l’uomo,  ma quello dell’arte attorno al tema della morte è senza dubbio un prendersi cura della memoria, del ricordo. Ogni quadro, ogni scultura, ogni scritto lasciato ai posteri trasuda di questo enorme bisogno spiccatamente umano: ricordare e farsi ricordare.

    Ricordare per continuare a prendersi cura anche di chi non c’è più, e nel suo ricordo continuare a prendersi cura di chi ancora c’è, a volte anche di noi stessi.

    Newsletter #25 - Febbraio 2022

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  • 24-4
    Schiavo detto “Atlante”

    Michelngelo Buonarroti
    1525-1530, Galleria dell’Accademia a Firenze

    L’imponente scultura marmorea di 277 cm fa parte della serie dei Prigioni "non-finiti" per la tomba di Giulio II. L'Atlante deve il suo nome alla forma del blocco non scolpito, che sembra pesare come un masso retto con sforzo sopra la testa. In realtà il blocco doveva contenere la testa stessa e un braccio, senza distinzione. Le gambe sono divaricate e piegate, un braccio sospeso, e tutta la muscolatura è in tensione come nel tentativo di sollevare un gravoso peso che incombe sulle spalle. In questa posizione è più che negli altri Prigioni, evidente il senso di energia compressa, che sembra esplodere dal marmo.

    Proprio lo stato non-finito è all'origine della straordinaria energia che coglie la figura in una sorta di atto primordiale nel liberarsi dal carcere della pietra grezza. Tutta la superficie è resa vibrante dalle tracce dei diversi scalpelli e raschietti usati nella scolpitura da Michelangelo.

    Questa sensazione di “prigionia” da cui cerchiamo di liberarci da quasi due anni a causa della pandemia ci opprime proprio come il personaggio che sembra divincolarsi nel blocco di marmo. Volendo fare un discorso più generale sul concetto di cura, il processo di uscita dallo stato di malattia ci impone di essere opera e artista allo stesso tempo. Opera oppressa che cerca di liberarsi e darsi una forma e artista che cerca di liberare dal marmo la figura che ha in mente. Proprio come quando siamo malati e a letto pensiamo a cosa vorremmo fare una volta guariti. Lì inizia la liberazione dalla roccia opprimente, lì inizia il nostro processo di cura. La cura come percorso verso una nuova vita, verso una ridifinizione di sé, togliere il marmo che imprigiona e che opprime e tornare a risollevarsi.

    Newsletter #24 - Gennaio 2022 ...

    L’imponente scultura marmorea di 277 cm fa parte della serie dei Prigioni "non-finiti" per la tomba di Giulio II. L'Atlante deve il suo nome alla forma del blocco non scolpito, che sembra pesare come un masso retto con sforzo sopra la testa. In realtà il blocco doveva contenere la testa stessa e un braccio, senza distinzione. Le gambe sono divaricate e piegate, un braccio sospeso, e tutta la muscolatura è in tensione come nel tentativo di sollevare un gravoso peso che incombe sulle spalle. In questa posizione è più che negli altri Prigioni, evidente il senso di energia compressa, che sembra esplodere dal marmo.

    Proprio lo stato non-finito è all'origine della straordinaria energia che coglie la figura in una sorta di atto primordiale nel liberarsi dal carcere della pietra grezza. Tutta la superficie è resa vibrante dalle tracce dei diversi scalpelli e raschietti usati nella scolpitura da Michelangelo.

    Questa sensazione di “prigionia” da cui cerchiamo di liberarci da quasi due anni a causa della pandemia ci opprime proprio come il personaggio che sembra divincolarsi nel blocco di marmo. Volendo fare un discorso più generale sul concetto di cura, il processo di uscita dallo stato di malattia ci impone di essere opera e artista allo stesso tempo. Opera oppressa che cerca di liberarsi e darsi una forma e artista che cerca di liberare dal marmo la figura che ha in mente. Proprio come quando siamo malati e a letto pensiamo a cosa vorremmo fare una volta guariti. Lì inizia la liberazione dalla roccia opprimente, lì inizia il nostro processo di cura. La cura come percorso verso una nuova vita, verso una ridifinizione di sé, togliere il marmo che imprigiona e che opprime e tornare a risollevarsi.

    Newsletter #24 - Gennaio 2022

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  • sdi-001
    Spedale degli innocenti

    Filippo Brunelleschi
    1419, Piazza Santissima Annunziata, Firenze

    Lo Spedale degli Innocenti è un edificio storico del centro di Firenze. Nato come primo brefotrofio d’Europa (istituto che accoglie e alleva i neonati illegittimi, abbandonati o in pericolo di abbandono), fu costruito a partire dal 1419 su progetto di Filippo Brunelleschi, facendone una delle prime architetture rinascimentali in assoluto.

    La fabbrica dello Spedale è una delle opere più significative della Firenze quattrocentesca, sia nel suo aprire l'età del Rinascimento cittadino in architettura, sia nel suo essere simbolo alto e tangibile di una civiltà che, nell'ambito della sua attenzione alle opere di pubblica utilità, cercò di rispondere in modo moderno ed efficace ...

    Lo Spedale degli Innocenti è un edificio storico del centro di Firenze. Nato come primo brefotrofio d’Europa (istituto che accoglie e alleva i neonati illegittimi, abbandonati o in pericolo di abbandono), fu costruito a partire dal 1419 su progetto di Filippo Brunelleschi, facendone una delle prime architetture rinascimentali in assoluto.

    La fabbrica dello Spedale è una delle opere più significative della Firenze quattrocentesca, sia nel suo aprire l'età del Rinascimento cittadino in architettura, sia nel suo essere simbolo alto e tangibile di una civiltà che, nell'ambito della sua attenzione alle opere di pubblica utilità, cercò di rispondere in modo moderno ed efficace al problema del ricovero, della cura e dell'istruzione dei fanciulli abbandonati. Si può dire che il passaggio dal Medioevo al Rinascimento si apre con il ripensare il concetto di cura e l’arte, in questo caso architettonica, ne sia il mezzo privilegiato. Brunelleschi studia e architetta spazi che, oltre che presentare un’armonia architettonica ragionata, sono allo stesso tempo utili allo scopo per cui erano destinati. Per questa ragione è enorme la ricchezza degli studi che sono stati dedicati al complesso e alla molteplicità degli ambienti e spazi interni, sebbene a livello figurativo rimane un’icona del Rinascimento la facciata abbellita dalle maioliche di Andrea della Robbia.

    I tempi sono cambiati dal 1419 come pure il concetto di cura, ma ancora oggi lo Spedale degli Innocenti ospita asili nido, una scuola materna, tre case famiglia destinate all'accoglienza di bambini in affido familiare e madri in difficoltà, segno tangibile che l’arte è Cura e curare è un Arte.

    Newsletter #23 - Dicembre 2021

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  • 22-8
    Bacchino malato

    Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio
    1593-94, Galleria Borghese, Roma

    In quest'opera l’autore si immedesima nel dio Dioniso, personaggio che incarna l'indole passionale in cui Caravaggio si riconosceva. Tuttavia il pittore si trovava in una fase di debolezza e malattia, infatti era stato vittima del calcio di un cavallo che lo aveva costretto a una convalescenza ospedaliera nell'ospeale della Consolazione. Il fatto lo aveva portato a riflettere sulla condizione umana, sempre in bilico tra salute e malattia, vigore e debolezza, spirito entusiastico e malinconia. In questo autoritratto Caravaggio ritrae Bacco con le labbra livide, il volto magro e pallido, ma con una corona di edera sul capo: questa pianta, ...

    In quest'opera l’autore si immedesima nel dio Dioniso, personaggio che incarna l'indole passionale in cui Caravaggio si riconosceva. Tuttavia il pittore si trovava in una fase di debolezza e malattia, infatti era stato vittima del calcio di un cavallo che lo aveva costretto a una convalescenza ospedaliera nell'ospeale della Consolazione. Il fatto lo aveva portato a riflettere sulla condizione umana, sempre in bilico tra salute e malattia, vigore e debolezza, spirito entusiastico e malinconia. In questo autoritratto Caravaggio ritrae Bacco con le labbra livide, il volto magro e pallido, ma con una corona di edera sul capo: questa pianta, da sempre simbolo di Dioniso, è segno di protezione e augurio di buon auspicio.

    Il dipinto non solo è ben augurante, ma esprime la consapevolezza della fragilità umana.

    Il periodo della degenza, quel periodo dedicato alla cura, diventa spesso un periodo di riflessione, dove a volte si rivedono le proprie priorità, si rivalutano i propri valori o addirittura crollano certezze fino ad allora solide.

    Caravaggio nel suo autoritratto allegorico ritrae proprio questo. C’è tutta la fragilità del momento, la sua vulnerabilità fisica e psichica, ma anche la sua speranza e desiderio di vita e per dircelo usa il linguaggio che meglio conosce: quello della pittura.

    L’arte di nuovo come mezzo di cura: mettere la propria condizione di malattia su tela, quasi ad esorcizzarla, ma anche per prenderne coscienza; primo passo per iniziare il proprio percorso di cura.

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  • 21-1
    Tigre con serpente

    Antonio Ligabue
    non datato, collezione privata

    La Storia dell’arte si è costellata nei secoli di personaggi che presentavano disturbi psichici, ma cosa accumuna cosi tanto arte e follia? È forse una sensibilità diversa, alterata a volte, che permette di evolversi artisticamente creando nuove forme di linguaggio, o è di per sé l’avvicinarsi all’arte a portare poi ad un’alterazione dello stato psico-emotivo della persona? Per alcuni l’arte fu un’ancora di salvezza da una realtà che in altro modo avrebbe visto esclusi certi personaggi eccentrici, anomali, geniali. Dall’altra c’è chi, talmente assorbito nel proprio mondo artistico, finì col perdere i contatti con la realtà.

    Nel caso di Antonio Ligabue ...

    La Storia dell’arte si è costellata nei secoli di personaggi che presentavano disturbi psichici, ma cosa accumuna cosi tanto arte e follia? È forse una sensibilità diversa, alterata a volte, che permette di evolversi artisticamente creando nuove forme di linguaggio, o è di per sé l’avvicinarsi all’arte a portare poi ad un’alterazione dello stato psico-emotivo della persona? Per alcuni l’arte fu un’ancora di salvezza da una realtà che in altro modo avrebbe visto esclusi certi personaggi eccentrici, anomali, geniali. Dall’altra c’è chi, talmente assorbito nel proprio mondo artistico, finì col perdere i contatti con la realtà.

    Nel caso di Antonio Ligabue il suo mondo pittorico lo aiutò ad esternare tutte le emozioni che nascevano nella sua testa, le paure che ne affliggevano l’anima. Questo non lo salvò dall’essere ricoverato più volte in manicomio. Antonio dipingeva molto, con colori vivaci, con tematiche sempre molto legate alla fauna selvatica. Uno stile naif simile a quello di Rousseau, il doganiere francese. Tigri, leopardi, sempre ruggenti, sempre ferocemente accaniti sulla preda. Si narra che

    un giovane medico, in uno dei vari ricoveri, dedusse che quegli animali imponenti, feroci , violenti, che occupavano l’intera tela, non fossero altro che i suoi disturbi, la sua vita travagliata che assalivano l’esistenza dell’artista. Antonio parlava di sé usando il linguaggio pittorico della giungla contenstualizzata nel paesaggio famigliare della pianura emiliana bagnata dal Po. Il medico ne parlò con Antonio, provò a spronarlo a invertire la rotta, sovvertire il punto di vista: doveva diventare lui la belva, il dominatore delle sue tele e della sua vita, non la sua malattia. Antonio accolse le parole del dottore, le ascoltò e gli frullarono in testa per molto tempo.

    Un giorno tornò sulla tela a dipingere, l’ennesimo felino. A tela terminata si vide qualcosa di diverso. Un’enorme tigre, in posa trionfante, maestosa, con le fauci aperte. Nessuna vittima sotto i suoi artigli, questa volta Antonio era diventato la tigre. Un successo terapeutico senza precedenti se non fosse che quella tigre, in contrasto netto con la sua posa e la sua massa imponente, si ritrovi avvinghiata dalle spire di un gigantesto serpente che la stava soffocando e da cui non riusciva a liberarsi. Antonio non è cambiato: la prospettiva si, ma lui no. Il malessere se lo porterà dentro per sempre, sarà sempre parte di lui, che lui sia un’esile antilope o una possente tigre. Antonio non guarì mai, aveva solo l’arte come cura. La follia lo faceva entrare in manicomio, l’arte lo faceva evadere.

    Ottobre 2021

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