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Curare ad arte

Una ricerca sul tema della cura nel mondo dell’arte,
perché curare è un’arte e l’arte può essere cura.

  • 44-3
    Ricordo di un dolore

    Giuseppe Pellizza detto “Pellizza da Volpedo”, 1889
    olio su tela, Pinacoteca dell’Accademia di Carrara, Bergamo

    In questo quadro, dipinto proprio a memoria di un dolore che afflisse l’artista in quegli anni, viene colto a pieno il momento in cui la rimembranza di un fatto doloroso torna alla luce nella mente della giovane donna.

    Lo sguardo perso nel vuoto, l’accenno di una smorfia ai lati della bocca, il libro lasciato cadere sulle ginocchia in segno di resa in contrapposizione con la mano sinistra che invece afferra,  stringendolo con nervosismo, il bracciolo della sedia.

    Il dolore causato dalla malattia, o da un lutto, quello può essere curato con la medicina, la terapia, a volte anche solo con il tempo; ma il ricordo, quello rimane impresso nella mente e affiora, a volte in maniera inaspettata, improvvisa. Nel quadro la giovane ragazza sembra proprio interrotta da un momento spensierato, da una lettura forse piacevole, ma basta una parola, un fiore essicato ritrovato tra le pagine, ed ecco il ricordo e con sé di nuovo il dolore, o quello che ne rimane tra le pieghe della mente. Il ricordo del dolore, della malattia, della morte, cicatrice amara e indelebile, per cui l’unica cura è l’accettazione.

    Newsletter #44 - Settembre 2023

    ...

    In questo quadro, dipinto proprio a memoria di un dolore che afflisse l’artista in quegli anni, viene colto a pieno il momento in cui la rimembranza di un fatto doloroso torna alla luce nella mente della giovane donna.

    Lo sguardo perso nel vuoto, l’accenno di una smorfia ai lati della bocca, il libro lasciato cadere sulle ginocchia in segno di resa in contrapposizione con la mano sinistra che invece afferra,  stringendolo con nervosismo, il bracciolo della sedia.

    Il dolore causato dalla malattia, o da un lutto, quello può essere curato con la medicina, la terapia, a volte anche solo con il tempo; ma il ricordo, quello rimane impresso nella mente e affiora, a volte in maniera inaspettata, improvvisa. Nel quadro la giovane ragazza sembra proprio interrotta da un momento spensierato, da una lettura forse piacevole, ma basta una parola, un fiore essicato ritrovato tra le pagine, ed ecco il ricordo e con sé di nuovo il dolore, o quello che ne rimane tra le pieghe della mente. Il ricordo del dolore, della malattia, della morte, cicatrice amara e indelebile, per cui l’unica cura è l’accettazione.

    Newsletter #44 - Settembre 2023

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  • 43-10
    L’urlo

    Edvard Munch, 1893-1910
    Tempera e pastello su cartone, Oslo, Galleria Nazionale

    La discriminazione a cui ancora oggi è soggetto il trattamento della malattia mentale e di chi ne soffre è un tema molto vecchio, anzi antico, che trova le sue origini già nelle popolazioni più antiche. Tra streghe, deviati sessuali, visionari, eccentrici e pazzi, le nomenclature con cui sono stati additati coloro che non rispondono alle tanto professate norme comportamentali dominanti nelle varie epoche e nei diversi territori e ambienti sociali sono tante, ma sempre insidiose, mefitiche, a tratti criminali.

    C’è un’opera nella Storia dell’arte, che parla in modo particolare del disagio, di chi ha sofferto in vita di disturbi mentali, nel non essere compreso o semplicemente ascoltato dalla sua contemporaneità, dalla società che gli sta attorno. Si tratta evidentemente de L'Urlo di Edvard Munch, tra i dipinti più celebri e significativi della storia dell’arte mondiale, di cui si conoscono quattro versioni.

    Il dipinto è una rappresentazione della sofferenza dell’uomo, del sentimento di irrequietezza interiore e del disagio. Il protagonista appare solo, i due passanti lo ignorano, il cielo e il paesaggio circostanti sono a dir poco inquietanti: al limite del reale, al limite dell’onirico, al limite della visione. Disperazione e angoscia si fanno epidermiche, sovrastano lo spettatore. Quest’opera testimonia quanto il pittore norvegese soffrisse per la discriminazione dei suoi, conclamati, disturbi mentali, ma anche del semplice fatto che le sue opere d’arte, nate per esprimere sentimenti come angoscia, malinconia e dolore, invece di portare ad un’empatia partecipativa, trovavano invece solo derisioni e critiche.

    Come molto spesso capita, solo i posteri hanno saputo riconoscere a Munch e alla sua opera, quell’importanza non solo artistica, ma anche di capacità descrittiva del malessere dell’uomo, del suo stare al mondo tra angosce, solitudini e paure.

    Newsletter #43 - Agosto 2023

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    La discriminazione a cui ancora oggi è soggetto il trattamento della malattia mentale e di chi ne soffre è un tema molto vecchio, anzi antico, che trova le sue origini già nelle popolazioni più antiche. Tra streghe, deviati sessuali, visionari, eccentrici e pazzi, le nomenclature con cui sono stati additati coloro che non rispondono alle tanto professate norme comportamentali dominanti nelle varie epoche e nei diversi territori e ambienti sociali sono tante, ma sempre insidiose, mefitiche, a tratti criminali.

    C’è un’opera nella Storia dell’arte, che parla in modo particolare del disagio, di chi ha sofferto in vita di disturbi mentali, nel non essere compreso o semplicemente ascoltato dalla sua contemporaneità, dalla società che gli sta attorno. Si tratta evidentemente de L'Urlo di Edvard Munch, tra i dipinti più celebri e significativi della storia dell’arte mondiale, di cui si conoscono quattro versioni.

    Il dipinto è una rappresentazione della sofferenza dell’uomo, del sentimento di irrequietezza interiore e del disagio. Il protagonista appare solo, i due passanti lo ignorano, il cielo e il paesaggio circostanti sono a dir poco inquietanti: al limite del reale, al limite dell’onirico, al limite della visione. Disperazione e angoscia si fanno epidermiche, sovrastano lo spettatore. Quest’opera testimonia quanto il pittore norvegese soffrisse per la discriminazione dei suoi, conclamati, disturbi mentali, ma anche del semplice fatto che le sue opere d’arte, nate per esprimere sentimenti come angoscia, malinconia e dolore, invece di portare ad un’empatia partecipativa, trovavano invece solo derisioni e critiche.

    Come molto spesso capita, solo i posteri hanno saputo riconoscere a Munch e alla sua opera, quell’importanza non solo artistica, ma anche di capacità descrittiva del malessere dell’uomo, del suo stare al mondo tra angosce, solitudini e paure.

    Newsletter #43 - Agosto 2023

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  • zzzzzzz
    Terrazza del Caffé la sera

    Vincent Van Gogh, 1888
    olio su tela, Museo Kroller-Müller, Otterlo

    Quest’opera non rappresenta un atto di cura, non si trova in un luogo di cura né lo rappresenta, qui la cura si trasmette nell’osservare l’esecuzione e la tecnica con cui l’artista, conosciuto per la sua fragilità psichica, dipinge questa tela.  Il tratto di Van Gogh, in genere nervoso e frammentato, qui si rilassa e diventa sognante, complice la serenità di questa notte nel Meridione francese e il raffinato accordo cromatico orchestrato. In quest’opera la forza del colore, sia guardandolo nell’insieme che nei singoli dettagli, ha un che di curativo. Ciascun colore ha una percezione sensoriale e una simbologia propria, amplificato dagli accostamenti complementari.

    Attraverso il nostro sguardo nella vita di ogni giorno, lasciarci trasportare nei colori che ci circondano significa riappacificarsi con le nostre emozioni, ma anche facilitare le reazioni del nostro organismo. Non per niente esistono degli studi sempre più approfonditi per la scelta dei colori all’interno dei luoghi di cura, ma anche nei luoghi di lavoro, nell’accostamento del vestiario, ecc.

    Viene da pensare che per Van Gogh stesso, creare quelle predominanti di giallo e blu fosse curativo, l’attività creativa restituiva all’artista, per suo stesso dire, un forte attaccamento alla vita. In quel momento, quando le emozioni prendevano forma e colore sulla tela, Van Gogh era indubbiamente sano.

    Newsletter #40 - Maggio 2023

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    Quest’opera non rappresenta un atto di cura, non si trova in un luogo di cura né lo rappresenta, qui la cura si trasmette nell’osservare l’esecuzione e la tecnica con cui l’artista, conosciuto per la sua fragilità psichica, dipinge questa tela.  Il tratto di Van Gogh, in genere nervoso e frammentato, qui si rilassa e diventa sognante, complice la serenità di questa notte nel Meridione francese e il raffinato accordo cromatico orchestrato. In quest’opera la forza del colore, sia guardandolo nell’insieme che nei singoli dettagli, ha un che di curativo. Ciascun colore ha una percezione sensoriale e una simbologia propria, amplificato dagli accostamenti complementari.

    Attraverso il nostro sguardo nella vita di ogni giorno, lasciarci trasportare nei colori che ci circondano significa riappacificarsi con le nostre emozioni, ma anche facilitare le reazioni del nostro organismo. Non per niente esistono degli studi sempre più approfonditi per la scelta dei colori all’interno dei luoghi di cura, ma anche nei luoghi di lavoro, nell’accostamento del vestiario, ecc.

    Viene da pensare che per Van Gogh stesso, creare quelle predominanti di giallo e blu fosse curativo, l’attività creativa restituiva all’artista, per suo stesso dire, un forte attaccamento alla vita. In quel momento, quando le emozioni prendevano forma e colore sulla tela, Van Gogh era indubbiamente sano.

    Newsletter #40 - Maggio 2023

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  • Immagine1sdfcse
    Cura degli ammalati – Pellegrinaio di Santa Maria della Scala

    Domenico di Bartolo, 1440
    Affresco, Santa Maria della Scala, Siena

    Gli ospedali un tempo erano definiti “ospitali”.  Lo stesso significato etimologico aiuta a comprendere come in origine gli ospedali non fossero luoghi di cura, ma avessero invece due precise caratteristiche: l’ospitalità dei viandanti, dei pellegrini e dei poveri, e l’assoluta gratuità della prestazione. Gli “ospitali” erano quindi strutture destinate ad una assistenza indifferenziata, dove le prime tecniche di medicina si mescolavano alla religione e alle credenze dell’epoca.

    Nel XIV e XV secolo, sorsero nuovi ospedali che costituirono veri e propri capolavori d’arte. Va tuttavia fatto presente che questi ospedali, sebbene ricchi di arti con sculture, marmi, pitture che li rendevano preziosi dal punto di vista artistico, non avevano sempre i requisiti tecnici ritenuti indispensabili per un ospedale.

    Il grande complesso del Santa Maria della Scala, situato nel cuore di Siena, di fronte alla cattedrale, costituì uno dei primi esempi europei di ricovero ed ospedale, con una propria organizzazione autonoma e articolata per accogliere i pellegrini e sostenere i poveri ed i fanciulli abbandonati. Il Santa Maria della Scala conserva straordinariamente integre le testimonianze di mille anni di storia, restituendo un percorso che, dall’età etrusca all’età romana, dal Medioevo al Rinascimento, giunge interrotto sino a noi.

    Ritroviamo anche qui il connubio Arte e Cura, in questo caso l’Arte in un luogo di Cura, come l’Ospedale. A sostenere sempre più quanto la Cura sia un’arte e l’Arte possa essere una cura.

    Newsletter #39 - Aprile 2023

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    Gli ospedali un tempo erano definiti “ospitali”.  Lo stesso significato etimologico aiuta a comprendere come in origine gli ospedali non fossero luoghi di cura, ma avessero invece due precise caratteristiche: l’ospitalità dei viandanti, dei pellegrini e dei poveri, e l’assoluta gratuità della prestazione. Gli “ospitali” erano quindi strutture destinate ad una assistenza indifferenziata, dove le prime tecniche di medicina si mescolavano alla religione e alle credenze dell’epoca.

    Nel XIV e XV secolo, sorsero nuovi ospedali che costituirono veri e propri capolavori d’arte. Va tuttavia fatto presente che questi ospedali, sebbene ricchi di arti con sculture, marmi, pitture che li rendevano preziosi dal punto di vista artistico, non avevano sempre i requisiti tecnici ritenuti indispensabili per un ospedale.

    Il grande complesso del Santa Maria della Scala, situato nel cuore di Siena, di fronte alla cattedrale, costituì uno dei primi esempi europei di ricovero ed ospedale, con una propria organizzazione autonoma e articolata per accogliere i pellegrini e sostenere i poveri ed i fanciulli abbandonati. Il Santa Maria della Scala conserva straordinariamente integre le testimonianze di mille anni di storia, restituendo un percorso che, dall’età etrusca all’età romana, dal Medioevo al Rinascimento, giunge interrotto sino a noi.

    Ritroviamo anche qui il connubio Arte e Cura, in questo caso l’Arte in un luogo di Cura, come l’Ospedale. A sostenere sempre più quanto la Cura sia un’arte e l’Arte possa essere una cura.

    Newsletter #39 - Aprile 2023

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  • Immagine1
    Statua della Dea Sekhmet

    Autore ignoto
    Musei Vaticani

    Se è vero che riconosciamo alla cultura egizia un approccio medico quasi moderno, c’è però una grande differenza tra la medicina di oggi e quella di allora: l’elemento magico.

    Il medico egizio infatti non disdegnava utilizzare degli incantesimi per aiutare la guarigione del malato. Oltre al sunu, il medico “tradizionale”, c’erano anche altre categorie di medici che utilizzavano principalmente la magia. Tra questi, i sacerdoti della dea Sekhmet, la Potente, dea dalla testa di leonessa.

    Questa dea forte, indomita e crudele, aveva una natura ambigua: se da un lato con il suo alito caldo si riteneva portasse le malattie e le pestilenze, dall’altro era una potente dea guaritrice, chiamata Signora della vita. Diversi Faraoni hanno dedicato il loro regno al culto di Sekhmet, cercando di entrare nelle grazie della dea.

    Tra le testimonianze più eloquenti c’è quella del faraone Amenhotep III: Malato e sovrappeso, il sovrano provò a ingraziarsi la dea Sekhmet, e per far questo fece scolpire 730 statue che la rappresentavano seduta in trono o in piedi. Queste statue vennero poi collocate all’interno del suo tempio funerario di Tebe Ovest. Disgraziatamente per lui, Sekmet restò sorda alle sue suppliche.

    Quello che colpisce in questa simbologia però, non è tanto la scelta della leonessa, quanto il fatto di accumunare il potere della malattia e della cura in un unico soggetto.  Una scelta che per una civiltà cosi antica come quella egiziana che ancora una volta sa di modernità. La cura e la malattia, due facce della stessa medaglia, due concetti  che vanno a braccetto da sempre e che già 5000 anni fa l’uomo sentì il bisogno di rappresentare.

    Newsletter #38 - Marzo 2023

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    Se è vero che riconosciamo alla cultura egizia un approccio medico quasi moderno, c’è però una grande differenza tra la medicina di oggi e quella di allora: l’elemento magico.

    Il medico egizio infatti non disdegnava utilizzare degli incantesimi per aiutare la guarigione del malato. Oltre al sunu, il medico “tradizionale”, c’erano anche altre categorie di medici che utilizzavano principalmente la magia. Tra questi, i sacerdoti della dea Sekhmet, la Potente, dea dalla testa di leonessa.

    Questa dea forte, indomita e crudele, aveva una natura ambigua: se da un lato con il suo alito caldo si riteneva portasse le malattie e le pestilenze, dall’altro era una potente dea guaritrice, chiamata Signora della vita. Diversi Faraoni hanno dedicato il loro regno al culto di Sekhmet, cercando di entrare nelle grazie della dea.

    Tra le testimonianze più eloquenti c’è quella del faraone Amenhotep III: Malato e sovrappeso, il sovrano provò a ingraziarsi la dea Sekhmet, e per far questo fece scolpire 730 statue che la rappresentavano seduta in trono o in piedi. Queste statue vennero poi collocate all’interno del suo tempio funerario di Tebe Ovest. Disgraziatamente per lui, Sekmet restò sorda alle sue suppliche.

    Quello che colpisce in questa simbologia però, non è tanto la scelta della leonessa, quanto il fatto di accumunare il potere della malattia e della cura in un unico soggetto.  Una scelta che per una civiltà cosi antica come quella egiziana che ancora una volta sa di modernità. La cura e la malattia, due facce della stessa medaglia, due concetti  che vanno a braccetto da sempre e che già 5000 anni fa l’uomo sentì il bisogno di rappresentare.

    Newsletter #38 - Marzo 2023

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  • Immagine1
    San Girolamo che leva la spina al leone

    Rogier van der Weyden
    1460-70, tempera e olio su tavola, Collezione Guglielmo Lochis

    Un uomo che toglie una spina dalla zampa di un leone. È un’immagine inconsueta, ma decisamente tradizionale quando si parla di San Girolamo. San Girolamo è, insieme a Sant’Agostino, tra i padri della Chiesa d’Occidente. Rimase nel deserto per tre anni, durante i quali sperimentò il lavoro, la solitudine, le privazioni e si dedicò alla meditazione, alla preghiera e allo studio. Qui ebbe luogo una delle vicende più famose e iconiche su di lui: un leone arrivò dal deserto mettendo in fuga i monaci. Girolamo non fuggì con gli altri, anzi, si avvicinò al leone e si rese conto che era ferito. Girolamo curò le ferite dell’animale e lo accolse con i suoi fratelli nella comunità, al fianco dell’asino, unico bene dei monaci. Un giorno l’asino fu rubato mentre il leone dormiva e i monaci accusarono la belva di averlo mangiato. Quando il leone incontrò l’asino, al seguito dei mercanti che lo avevano rubato, lo riportò ai monaci. La leggenda è così famosa che la si trova raccontata in molti scritti dei secoli successivi ed ha ispirato la caratteristica rappresentazione iconografica di Girolamo in compagnia del leone.

    La scelta di rappresentarlo in questo modo, sottolinea il ruolo del Santo come dottore della Chiesa; ammantato in un ricco mantello rosso, distoglie l’attenzione dal volume che stava leggendo per togliere la spina dalla zampa del leone ferito.

    In quest’opera leggiamo molti degli elementi che riconducono alla cura e al suo perseguimento: lo studio infaticabile e la ricerca che guidano la vita di un uomo; il gesto umano, delicato, accogliente e incondizionato che cura il leone, dando sollievo al dolore.

    Newsletter #37 - Febbraio 2023

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    Un uomo che toglie una spina dalla zampa di un leone. È un’immagine inconsueta, ma decisamente tradizionale quando si parla di San Girolamo. San Girolamo è, insieme a Sant’Agostino, tra i padri della Chiesa d’Occidente. Rimase nel deserto per tre anni, durante i quali sperimentò il lavoro, la solitudine, le privazioni e si dedicò alla meditazione, alla preghiera e allo studio. Qui ebbe luogo una delle vicende più famose e iconiche su di lui: un leone arrivò dal deserto mettendo in fuga i monaci. Girolamo non fuggì con gli altri, anzi, si avvicinò al leone e si rese conto che era ferito. Girolamo curò le ferite dell’animale e lo accolse con i suoi fratelli nella comunità, al fianco dell’asino, unico bene dei monaci. Un giorno l’asino fu rubato mentre il leone dormiva e i monaci accusarono la belva di averlo mangiato. Quando il leone incontrò l’asino, al seguito dei mercanti che lo avevano rubato, lo riportò ai monaci. La leggenda è così famosa che la si trova raccontata in molti scritti dei secoli successivi ed ha ispirato la caratteristica rappresentazione iconografica di Girolamo in compagnia del leone.

    La scelta di rappresentarlo in questo modo, sottolinea il ruolo del Santo come dottore della Chiesa; ammantato in un ricco mantello rosso, distoglie l’attenzione dal volume che stava leggendo per togliere la spina dalla zampa del leone ferito.

    In quest’opera leggiamo molti degli elementi che riconducono alla cura e al suo perseguimento: lo studio infaticabile e la ricerca che guidano la vita di un uomo; il gesto umano, delicato, accogliente e incondizionato che cura il leone, dando sollievo al dolore.

    Newsletter #37 - Febbraio 2023

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  • 35-1
    La camera degli sposi

    Andrea Mantegna
    1465-74, affresco, Castello di S. Giorgio, Mantova

    L’arte riveste un ruolo fondamentale nell’ambito della medicina. Le rappresentazioni del passato, in assenza dei moderni strumenti di diagnostica, permettono di individuare patologie che già all’epoca erano presenti, ma non conosciute.  L’osservazione di tali opere permette di sviluppare l’ osservazione e l’ interpretazione dei sintomi.

    È il caso del ciclo di affreschi della Camera degli Sposi, dipinti dal Mantegna tra il 1465 e il 1474 e dellaneurofibromatosi tipo 1 (NF1), anche nota come malattia di Von Recklinghausen.  Quest’ultima è una malattia neurocutanea ereditaria caratterizzata dalla predisposizione allo sviluppo di tumori benigni e maligni. La prevalenza è stimata in un caso ogni 4.500.

    La prima descrizione della malattia di Von Recklinghausen, ad opera del medico e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605), risale al 1592. L’affresco del Mantegna ne predata la descrizione clinica di circa 86 anni e dimostra le magistrali capacità del pittore di riprodurre fedelmente figure umane di dipingere specifiche condizioni patologiche.

    La figura affetta da nanismo, dipinta nell’affresco del Mantegna, mostra i sintomi della NF1: cinque neurofibromi sul viso più un neurofibroma sul dorso della mano destra, almeno cinque macchie caffè-latte sulle guance e sul mento, svariati noduli di Lish nell’iride destra e sinistra, nonché la più evidente e marcata riduzione della statura sconfinante in un nanismo ipofisario.

    Ecco dunque che l’arte incontra nuovamente la Cura. Due mondi apparentemente lontani, ma che alla base hanno entrambi l’attenta osservazione del contesto in cui si opera, fosse una Camera signorile del 400 o una stanza di ospedale di fronte a un paziente.

    Newsletter #35 - Dicembre 2022

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    L’arte riveste un ruolo fondamentale nell’ambito della medicina. Le rappresentazioni del passato, in assenza dei moderni strumenti di diagnostica, permettono di individuare patologie che già all’epoca erano presenti, ma non conosciute.  L’osservazione di tali opere permette di sviluppare l’ osservazione e l’ interpretazione dei sintomi.

    È il caso del ciclo di affreschi della Camera degli Sposi, dipinti dal Mantegna tra il 1465 e il 1474 e dellaneurofibromatosi tipo 1 (NF1), anche nota come malattia di Von Recklinghausen.  Quest’ultima è una malattia neurocutanea ereditaria caratterizzata dalla predisposizione allo sviluppo di tumori benigni e maligni. La prevalenza è stimata in un caso ogni 4.500.

    La prima descrizione della malattia di Von Recklinghausen, ad opera del medico e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605), risale al 1592. L’affresco del Mantegna ne predata la descrizione clinica di circa 86 anni e dimostra le magistrali capacità del pittore di riprodurre fedelmente figure umane di dipingere specifiche condizioni patologiche.

    La figura affetta da nanismo, dipinta nell’affresco del Mantegna, mostra i sintomi della NF1: cinque neurofibromi sul viso più un neurofibroma sul dorso della mano destra, almeno cinque macchie caffè-latte sulle guance e sul mento, svariati noduli di Lish nell’iride destra e sinistra, nonché la più evidente e marcata riduzione della statura sconfinante in un nanismo ipofisario.

    Ecco dunque che l’arte incontra nuovamente la Cura. Due mondi apparentemente lontani, ma che alla base hanno entrambi l’attenta osservazione del contesto in cui si opera, fosse una Camera signorile del 400 o una stanza di ospedale di fronte a un paziente.

    Newsletter #35 - Dicembre 2022

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  • Immagine1
    David che calma i furori di Saul con l’arpa

    Silvestro Lega
    1852, Firenze, Galleria dell’Accademia

    In questa serie di contributi dedicati al rapporto tra Arte e Cura non abbiamo ancora toccato il tema della musica utilizzata come cura. La Musicoterapia, ascoltare e fare musica, allevia, calma, culla, ma allo stesso tempo permette di sfogare, di far uscire, attraverso il suono, ciò che ci opprime.

    Silvestro Lega, in un suo primo periodo classicista, narra di come il benessere della musica fosse conosciuto fin dall’antichità e riportato anche nel libro della Bibbia, mentre si narrano le vicende di Saul e Davide. Davide, abile arpista, con la sua grazia musicale calma e rasserena il sanguigno e iracondo Saul.

    La Musica come Arte, La Musica come Cura. L’uomo ha da sempre accompagnato la sua vita con suoni e vibrazioni che suscitassero emozioni e influenzassero gli stati d’animo. Stessa ricerca che ritroviamo nella storia dell’arte nell’eterna ricerca di emozioni da trasmettere attraverso le tecniche pittoriche e scultoree.

    Newsletter #34 - Novembre 2022

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    In questa serie di contributi dedicati al rapporto tra Arte e Cura non abbiamo ancora toccato il tema della musica utilizzata come cura. La Musicoterapia, ascoltare e fare musica, allevia, calma, culla, ma allo stesso tempo permette di sfogare, di far uscire, attraverso il suono, ciò che ci opprime.

    Silvestro Lega, in un suo primo periodo classicista, narra di come il benessere della musica fosse conosciuto fin dall’antichità e riportato anche nel libro della Bibbia, mentre si narrano le vicende di Saul e Davide. Davide, abile arpista, con la sua grazia musicale calma e rasserena il sanguigno e iracondo Saul.

    La Musica come Arte, La Musica come Cura. L’uomo ha da sempre accompagnato la sua vita con suoni e vibrazioni che suscitassero emozioni e influenzassero gli stati d’animo. Stessa ricerca che ritroviamo nella storia dell’arte nell’eterna ricerca di emozioni da trasmettere attraverso le tecniche pittoriche e scultoree.

    Newsletter #34 - Novembre 2022

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  • 33-5
    Ultimi momenti di Napoleone

    Vincenzo Vela
    1866, Museo Vela, Ligornetto

    Quasi mezzo secolo dopo la morte di Napoleone, l'artista ticinese di più larga fama, lo scultore di Ligornetto Vincenzo Vela, gli dedicava ancora un monumento, destinato a conoscere un enorme successo internazionale. Presentato all'Esposizione Universale di Parigi del 1867, quest'opera colossale restituisce un personaggio storico sopravvissuto a se stesso: abbandonata la trasfigurazione epica, l'opera di Vela ci descrive l'uomo nell'ora del declino, della malattia (Napoleone morì per un tumore allo stomaco) e della solitudine.

    Sebbene abbigliato in veste da camera e abbandonato in poltrona il Vela conferisce a Napoleone un vigore interiore leggibile nella fierezza dello sguardo e nella forza indomita concentrata nel pugno chiuso sopra una carta d'Europa, ma rimane iconica l'immagine di un uomo solo ad affrontare la malattia, con l’unica cura per lo spirito se non quella di rimembrare il suo glorioso passato.

    Un eroe romantico al di fuori del tempo, ma anche un’icona, suo malgrado, di quanto lo status di malato sia una delle condizioni universali che colpiscono l’uomo in maniera universale, sia esso un malconcio senzatetto o un eroe internazionale destinato, al termine della malattia e della conseguente morte, a rimanere nell’immaginario collettivo nei secoli a venire.

    Newsletter #31 - Agosto 2022

    ...

    Quasi mezzo secolo dopo la morte di Napoleone, l'artista ticinese di più larga fama, lo scultore di Ligornetto Vincenzo Vela, gli dedicava ancora un monumento, destinato a conoscere un enorme successo internazionale. Presentato all'Esposizione Universale di Parigi del 1867, quest'opera colossale restituisce un personaggio storico sopravvissuto a se stesso: abbandonata la trasfigurazione epica, l'opera di Vela ci descrive l'uomo nell'ora del declino, della malattia (Napoleone morì per un tumore allo stomaco) e della solitudine.

    Sebbene abbigliato in veste da camera e abbandonato in poltrona il Vela conferisce a Napoleone un vigore interiore leggibile nella fierezza dello sguardo e nella forza indomita concentrata nel pugno chiuso sopra una carta d'Europa, ma rimane iconica l'immagine di un uomo solo ad affrontare la malattia, con l’unica cura per lo spirito se non quella di rimembrare il suo glorioso passato.

    Un eroe romantico al di fuori del tempo, ma anche un’icona, suo malgrado, di quanto lo status di malato sia una delle condizioni universali che colpiscono l’uomo in maniera universale, sia esso un malconcio senzatetto o un eroe internazionale destinato, al termine della malattia e della conseguente morte, a rimanere nell’immaginario collettivo nei secoli a venire.

    Newsletter #31 - Agosto 2022

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  • 31-5
    Scienza e carità

    Nathan Sawaya
    2007, Avant Gallery – New York

    Pablo Picasso, il grande artista spagnolo che diventerà il principale esponente del Cubismo, realizzò quest’ opera a soli 16 anni. Giovane, ma già così maturo, indaga nella tela la tematica della malattia e il diverso approccio, per certi versi conflittuale, tra scienza e religione.

    La scena si ambienta in una stanza grigia, dove una malata, dal volto stanco e spaventato, se ne sta immobile sdraiata nel letto, incapace di lottare e reagire. I due diversi metodi di cura sono personificati da un dottore, simbolo della ragione e della scienza, e da una suora, simbolo di quella carità e provvidenza che animava anche i nostri ospedali fino alla prima metà del secolo scorso.

    La visione del giovane Picasso, per quanto drammatica, risulta essere estremamente pacifica e unificante: il medico (nel quale Picasso sembra abbia ritratto il padre) tocca il polso della donna, mentre la suora, con in braccio la figlia della sventurata malata, le porge dolcemente una tazza.

    Dunque Picasso riflette sulla malattia, sull’apporto che possono dare, sebbene in maniera diversa ma complementare, scienza e religione: due modi di intendere la cura, modi di prendersi cura di due dimensioni caratteristiche dell’essere umano; la dimensione corporea e quella spirituale.

    Newsletter #31 - Agosto 2022

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    Pablo Picasso, il grande artista spagnolo che diventerà il principale esponente del Cubismo, realizzò quest’ opera a soli 16 anni. Giovane, ma già così maturo, indaga nella tela la tematica della malattia e il diverso approccio, per certi versi conflittuale, tra scienza e religione.

    La scena si ambienta in una stanza grigia, dove una malata, dal volto stanco e spaventato, se ne sta immobile sdraiata nel letto, incapace di lottare e reagire. I due diversi metodi di cura sono personificati da un dottore, simbolo della ragione e della scienza, e da una suora, simbolo di quella carità e provvidenza che animava anche i nostri ospedali fino alla prima metà del secolo scorso.

    La visione del giovane Picasso, per quanto drammatica, risulta essere estremamente pacifica e unificante: il medico (nel quale Picasso sembra abbia ritratto il padre) tocca il polso della donna, mentre la suora, con in braccio la figlia della sventurata malata, le porge dolcemente una tazza.

    Dunque Picasso riflette sulla malattia, sull’apporto che possono dare, sebbene in maniera diversa ma complementare, scienza e religione: due modi di intendere la cura, modi di prendersi cura di due dimensioni caratteristiche dell’essere umano; la dimensione corporea e quella spirituale.

    Newsletter #31 - Agosto 2022

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